Prossimi progetti per autobiografia ed altro

 Due giorni fa ho concluso la stesura della mia autobiografia relativa al periodo che va dalla nascita, il 10 gennaio 1960, alla fine del 1979. Considerato che quanto ho scritto ha occupato ben 40 capitoli, ho deciso di ridenominare quanto ho prodotto (pubblicato solo su questo blog) Autobiografia giovanile.

Come avrà notato che ha avuto la gentilezza di leggerla, il lavoro non è scritta come se fosse un romanzo (benche realistico). Non ho usato né i nomi veri delle persone coinvolte né nomi fittizi, per il semplice fatto che non ho fatto in tempo a pensare quale nome sarebbe stato migliore per identificare ciascun protagonista. Il principale obiettivo di queste mie autobiografie è lasciare, per chi vorrà conoscermi meglio da oggi in avanti, qualche ricordo della mia vita. Il secondo è rivolto a me: scrivendo ho avuto modo di far riemergere fatti, persone e risvolti psicologici, che mi hanno permesso di riflettere ancora di più su me stesso. Non escludo, un giorno, di rileggere quanto ho scritto, migliorarlo, integrarlo, sfrondarlo di eventuali parti ridondanti, e attribuire nomi fittizi (per rispetto della privacy di chi ho conosciuto) alle persone e a certi di cui ho parlato senza identificarli.

Penso di scrivere ancora due parti della mia autobiografia nel prossimo futuro. La prima sarà relativa agli anni che vanno dalla fine del 1979 - che coincide anche con l'inizio dell'università, l'impegno nella pratica buddista abbracciata quell'anno, l'abbandono di alcune abitudini errate acquisite negli ultimi anni precedenti - a quando mi sono sposato nel settembre 1989. Nella seconda cercherò di lasciare informazioni e spiegazioni di quanto è avvenuto nel periodo in cui ho iniziato, con la mia ormai ex moglie, a creare una famiglia e ho iniziato una seconda fase della mia carriera come giornalista, fino al momento attuale.

Parallelamente alla continuazione della mia autobiografia, sull'onda di un nuovo approccio alla scrittura diverso da quello legato al mio mestiere di giornalista, mi piacerebbe cimentarmi con qualche progetto di tipo letterario. A questo fine sono aperto anche a raccogliere opinioni e suggerimenti.

Autobiografia giovanile - Cap. 40 - Verso l'età adulta

 A metà primavera circa del 1979,interruppi, dopo pochi mesi che avevo iniziato, di praticare il buddismo di Nichiren Daishonin e di frequentare i nuovi amici della Soka Gakkai. Per qualche giorno avevo pensato che avrei potuto continuare pur mantenendo il mio stile di vita sregolato e, sotto certi aspetti, ormai sempre più anche autolesionista. Ma alla fine cedetti e archiviai quell’esperienza come una delle diverse vissute negli anni precedenti. Avevo già smesso, dopo pochi mesi, anche di frequentare la palestra di yoga. Non mi sembrava di fare progressi in quella disciplina: in particolare, quando alla fine dovevamo passare molti minuti sdraiati in uno stato di rilassamento, io non riuscivo a raggiungere questo stato: per lo meno non come avrei voluto. 

Fra i temi che avevo archiviato già nella seconda metà del 1978 c’era la politica. Dopo non più di due o tre cortei, a cui avevo preso parte nella prima metà, portandomi dietro qualcuno degli amici del Collettivo Politico Vigentino (Cpv), che avevo fondato nelle seconda metà del 1977 con l’idea di creare un punto di riferimento dell’area dell’Autonomia anche nel mio quartiere (ma in realtà non fu mai un soggetto politico bensì una compagnia di amici), dalla primavera del 1978 la militanza politica aveva smesso di fare parte del mio bagaglio esperienziale. Non frequentai più il Circolo Giovanile Romana-Vigentina di Corso Lodi. 

Fra la fine del 1978 e l’inizio del 1979, quando ormai gli amici con cui mi vedevo erano nuovamente gli ex-Cpv (dopo che per qualche mese mi avevano emarginato), i nuovi amici del quartiere con cui avevo iniziato a uscire quell’anno, e i miei due nuovi amici fra i compagni di scuola all’Unione Professori, ebbi solo una volta l’occasione di rivedere delle persone del Circolo Giovanile Romana-Vigentina a un concerto di gruppi rock studenteschi che si tenne nell’aula magna del Settimo liceo scientifico. In particolare, nell’atrio dell’aula magna, mentre eravamo entrambi su di giri, fui avvicinato ad uno di questi miei ex compagni di attività politica, che mi rinfacciò di avere smesso di andare alla casa occupata di Corso Lodi 6 in un momento in cui l’impianto elettrico che avevo installato (peraltro, devo avere aggiunto io, con l’intervento decisivo di un altro di loro, che di lavoro faceva l’elettricista) aveva cominciato a saltare spesso. E si lamentò per il fatto che loro si trovavano in varie occasioni a cercare di risolvere queste interruzioni di corrente, che non colpivano solo la loro sede al piano terreno, ma anche gli appartamenti delle famiglie dei piani soprastanti. Trovai questo ragazzo particolarmente arrabbiato con me, il che mi colpì relativamente perché, anche in passato, non era mai stato uno che mi sembrava avermi in simpatia, tranne forse qualche rara occasione. Ma dietro quel parlarmi in tono così esasperato, quella sera mi sembrò esserci anche un malessere psicologico che non c’entrava con me ma che riguardava lui solo. Diversi mesi più tardi mi ritornò, questo mi tornò in mente quando seppi la notizia che quel ragazzo si era suicidato lanciandosi da un terrazzino condominiale a un piano molto alto del palazzo in cui viveva in zona Corvetto.

Fra il 1977 e il 1979, comunque, io ero uno dei tanti adolescenti che si erano avvicinati alla militanza politica, nelle formazioni più estreme, nell’”ultima coda” del ‘68 (così me la definì, qualche anno dopo, un giornalista che poteva essere mio padre) e che poi si erano progressivamente disimpegnati per perseguire stili di vita differenti in cui la ricerca di sensazioni forti, a costo di infrangere limiti imposti dal buon senso comune e dal rispetto della salute, faceva la parte del leone. E questo avveniva tanto a sinistra quanto a destra. Lo posso affermare perché, agli inizi della primavera 1979, più o meno nello stesso periodo in cui stavo ancora sperimentando la pratica del buddismo, mi ritrovai ad aggiungere alla mia cerchia di amicizie anche ragazzi della mia età che, solo fino a un paio d’anni prima, erano stati militanti dell’estrema destra. Giovani con cui, noi dell’altra parte, ci odiavamo e che in qualche occasione avremmo potuto scontrarci fisicamente al punto da causare delle tragedie. Devo però dire che, nonostante io allora mi ritrovassi con persone che ce l’avevano “a morte” con i fascisti, dentro di me non ho mai sentito realmente il desiderio di fare del male a qualcuno per via di idee politicamente opposte. E non ho mai giustificato, per esempio, l’uccisione, nel 1975, di Sergio Ramelli, un giovane di destra di Milano. Il suo omicidio, così come quelli, da parte di neofascisti, dei “compagni” Claudio Varalli (1975) e Gaetano Amoroso (1976; cugino di un mio compagno di classe delle medie), mi sembravano tutti assurdi. 

Ma in quegli anni frequentavo ugualmente chi la pensava in maniera diversa sull’inutilità e l’atrocità di certi atti violenti, perché comunque condividevo con loro altri obiettivi della lotta politica. Il giorno in cui rapirono Aldo Moro, così, durante un’assemblea studentesca straordinaria al Donatelli, intervenni giustificando l’azione delle Brigate Rosse e fui sommerso di fischi. Ma sicuramente, qualche settimana più tardi, non approvai l’uccisione del politico. Su questo punto condivisi il titolo di prima pagina, a caratteri cubitali, dell’edizione del giorno dopo di Lotta Continua (quotidiano che acquistavo quasi tutti i giorni in quel periodo), che condannava senza appello l’omicidio di Moro.

Come iniziai a frequentare degli ex potenziali nemici da combattere? Un sabato pomeriggio della primavera 1979 mi ritrovai con uno dei miei due amici compagni di classe con cui uscivo ogni tanto. Ci trovavamo in Piazza Vetra, allora già in realtà una parte del Parco delle Basiliche, che era un luogo noto per la presenza di spacciatori di droghe di ogni tipo. Io e il mio amico venimmo all’improvviso accerchiati da un gruppo di militanti di estrema sinistra con i fazzoletti rossi a coprire parte della faccia e i classici manici di piccone con un pezzo di stoffa rossa arrotolati a mo’ di bandiera. Fra i primi di loro che notai ci fu una ragazzina apparentemente di prima liceo, ma che poteva dimostrare anche dodici anni. Aveva uno sguardo determinato ma non feroce. Forse mi sembrò come potevo essere io un po’ di anni prima, nel 1975. Lui era in prima fila ma non parlò. Si rivolsero a noi altri più grandi, i quali qualificarono il gruppo come una ronda contro lo spaccio dell’eroina. Io invece dissi che ero un compagno, e feci qualche nome di un gruppo antifascista che avevo frequentato negli anni precedenti e che loro conosceva. Così ci lasciarono andare. 

Dopo un po’ di passi, vidi che il mio amico aveva gli occhi arrossati. Mi disse che era stato fortunato che ci fossi io e che, se ci avessero chiesto di mostrare i nostri documenti, lui forse sarebbe stato picchiato. Mi spiegò che, prima di allora, non mi aveva raccontato del suo passato nel Fronte della Gioventù perché, sapendo che io ero stato un compagno e forse lo ero ancora, non voleva “rovinare la nostra amicizia”. Io gli dissi subito che perché quello che era passato era passato, che noi potevamo essere amici anche se avevamo avuto esperienze diverse. Dopo quell’episodio continuammo il pomeriggio e la sera insieme ad altri suoi amici, tutti “ex fasci”, maschi, della nostra età. Alcuni, come me e il mio amico, erano impegnati a prepararsi per la “matura” (l’esame di maturità). 

Tutti divennero miei amici da quel giorno. Quella sera decidemmo di girare per Milano ammassati nella macchina dei miei (la Opel Kadett familiare). A una certa ora, all’incrocio fra via Ferrari e via Farini, facemmo un piccolo incidente stradale con un’altra macchina. In quel momento scoprii il carattere ancora focoso di alcuni di loro, che collegai anche con il tipo di militanza politica che avevano praticato. Prima di me scesero subito dalla mia macchina e andarono a litigare con il guidatore dell’altra. Quasi certamente aveva torto lui, ma anch’io ero stato piuttosto distratto. Comunque sia, io e l’altro guidatore ci scambiammo i dati e, nei giorni successivi l’assicurazione di mio padre ci mandò i fogli della constatazione amichevole da compilare. I miei nuovi amici si offrirono come testimoni a mio favore pochi giorni dopo ci rivedemmo per firmare tutti insieme il documento. 

Da quel weekend iniziai a trascorrere tutti i fine settimana con quella compagnia, mentre nello stesso periodo smettevo di frequentare i buddisti e di praticare. Ricordo che - memore del “tradimento” della nostra amicizia effettuato nei miei confronti l’anno prima da alcuni dei miei amici ex-Cpv e altri che si erano uniti a noi nel 1978 - un giorno chiesi al mio compagno di classe e amico di dirmi che cosa avevano detto di me i suoi amici. Lui mi disse che erano contenti di avermi conosciuto. Nelle settimane successive anch’io feci conoscere qualche mio amico al mio compagno di classe. Infatti, nei giorni infrasettimanali continuavo a frequentare il bar Frison, dove mantenevo i miei rapporti di amicizia con diversi giri di persone con cui mi uscivo dagli anni precedenti e qualcuno nuovo. Un giorno presentai a questo compagno di scuola anche il mio migliore amico di sempre. Per l’occasione menzionai il fatto che tutti e tre avevamo in comune la passione per l’elettronica. Per la verità io non mi dedicavo più a questo hobby, così come a quello della radio CB. Anzi, un giorno chiesi e ottenni dal mio compagno di scuola che prendesse lui tutti i componenti elettronici che mi erano rimasti, compresi quelli che mi aveva regalato l'ingegnere parente acquisito che, in passato, mi aveva fatto ripetizioni di matematica.

Fra i nuovi amici che mi feci in quei mesi in quartiere, ce ne furono alcuni che negli anni passati erano stati simpatizzanti per l’estrema destra, ma che ora vivevano anche loro una vita sregolata. Un pomeriggio uscimmo insieme io, uno di questi e il mio compagno di classe, che si affezionò alla persona che avevo portato io. Ma poi avemmo poche occasioni di uscire di nuovo tutti insieme. Intanto era riapparso anche quello del quartetto della fine 1976 che, agli inizi del 1978, era rimasto nel gruppo Cpv, o ormai ex-Cpv, e che poi non avevo più visto per lungo tempo. Con lui avevo sempre avuto un legame personale molto forte, soprattutto da dopo la festa contro il Concordato al Palalido nel febbraio 1978.

Però nei fine settimana uscivo sempre con la compagnia del mio compagno di scuola, e qualche volta ci raccontavamo a vicenda qualche episodio accaduto in passato, quando militavamo su fronti politici opposti. Un pomeriggio accadde un’altra volta un episodio simile a quello che era successo a me e al mio compagno di classe in Piazza Vetra. Questa volta ci trovavamo nei giardinetti di Piazzale Susa. Arrivò un gruppo di compagni, impegnati credo in una ronda antifascista, che riconobbero alcuni dei miei amici. Prima che potesse avvenire qualcosa di brutto, io dissi ai compagni che io avevo frequentato un comitato antifascista, feci il nome di alcuni di quel comitato che loro conoscevano bene e li assicurai che ora i ragazzi con cui ero lì non facevano più parte di nessun gruppo di estrema destra. Tutto si risolse e ci lasciarono in pace. 

Un giorno di una settimana, il mio compagno di classe mi disse che lui e altri nostri amici avevano deciso che dovevo conoscere una loro amica con cui tutti avevano fatto l’amore (forse il termine fu “sesso”) la prima volta. Mi disse che proprio in quei giorni c’era stato un altro dei nostri amici, che era anche lui vergine come me. Così, il sabato sera successivo, andammo a casa di questa loro amica, i cui genitori erano fuori per il fine settimana, e iniziammo a festeggiare. Io e il mio compagno di classe, mentre eravamo entrambi su di giri, ci sdraiammo sul letto matrimoniale con questa ragazza, che aveva anche lei la nostra età e che io avevo già identificato come una ragazza tranquilla e verso la quale io non nutrivo un giudizio negativo per il fatto che avesse scelto di avere rapporti promiscui con più ragazzi, anche contemporaneamente. Anche gli altri nostri amici erano nella stessa stanza seduti su alcune poltrone. C’era un giradischi e io proposi di ascoltare l’album Ummagumma dei Pink Floyd con le luci spente. Ero curioso di vedere quale reazione avrebbero avuto gli altri, ma soprattutto la ragazza sotto le lenzuola con me e il mio amico più intimo in quel periodo, ascoltando il punto del brano Careful with that axe, Eugene in cui avviene l’assalto con l’ascia e la vittima urla. E forse desideravo anche che, grazie alle luci spente, si raggiungesse la situazione giusta perché la ragazza iniziasse a fare qualcosa con me. 

Come infatti accadde. Mentre andava la musica sentii che con il suo piede sinistro iniziò a carezzare il mio destro. Anch’io risposi facendo lo stesso movimento nei suoi confronti. Poi iniziammo a praticare del petting, durante il quale una volta urtai con la mia mano quella del mio amico, e lui si scusò e mi lasciò campo libero. Quindi con molta fatica, dato che non ero lucidissimo, riuscimmo ad avere un rapporto completo. Già dal giorno successivo o un paio dopo la ragazza mi telefonò a casa per dirmi che si era trovata molto bene con me, che ero stato molto dolce, e che le sarebbe piaciuto rivedermi. Io accampai qualche scusa per non fissare un appuntamento. Anch’io le volevo bene e le ero anche grato per avermi fatto vivere quella prima esperienza, ma non mi sentivo attratta da lei. La rividi solo un pomeriggio insieme agli altri nostri amici, ma non accennammo più a quanto era avvenuto.

Intanto si avvicinavano gli esami di maturità. Gli scritti erano previsti per i primi giorni di luglio 1979. Qualche settimana prima, il mio compagno di classe e amico mi invitò ad andare nella casa in montagna della sua famiglia a studiare insieme. Nei primi giorni ci fu anche la sua ragazza, poi restammo da soli. Avevamo anche portato su due chitarre, e così continuai a insegnargli qualche nuovo accordo e ogni tanto potemmo suonare insieme. Io improvvisavo e lui mi accompagnava. Devo dire che allora - come si era dimostrato quando suonavo sulle gradinate della chiesa con il mio amico chitarrista blues - non avevo imparato a suonare scale e riff. E così le mie improvvisazioni erano molto limitate. Ricordo che mangiavamo quasi sempre pasta aglio e olio e peperoncino o pasta alla carbonara come primi e cotolette come secondo. Studiavamo molte ore, ma soprattutto di notte fino a poco prima dell’alba. Lui si impegnava soprattutto con matematica, io invece con italiano. Mi rilessi, forse tutti i tre volumi del Compendio di storia della letteratura italiana di Natalino Sapegno, che ancora conservo gelosamente. 

Al nostro rientro affrontammo gli esami di quarta e quinta da privatisti presso il Liceo Scientifico L. Bottoni di Milano. Trovai quel periodo come un tunnel che non finiva mai. Per lo scritto di italiano scelsi una traccia di attualità incentrata sul problema della crisi energetica di quell’anno (nota come seconda crisi petrolifera). Esordii affermando che il problema mi preoccupava relativamente ,perché auspicavo un modello di società diversa, in cui non ci sarebbe stato molto bisogno di carburanti fossili. Una società non capitalista e molto ambientalista. Scrissi così tanto che non feci in tempo a copiare in bella tutto il testo e invitai la commissione a finire la lettura dalla brutta. Il giorno dopo ci fu lo scritto di matematica. La mia preparazione migliore si fermava al programma di terza liceo. Avevo sì studiato qualcosa, ma non ero preparato a fondo sugli argomenti relativi alle funzioni trascendenti (esponenziali, logaritmi, trigonometria) e all’analisi (derivate e integrali). Per riuscire a finire un po’ più di metà del compito riuscii a farmi aiutare un pochino dal mio amico nei bagni, così come io gli avevo dato dei suggerimenti il giorno prima durante lo scritto di italiano. Gli orali andarono più facilmente, anche se due materie che erano state estratte per me per l’orale - storia dell’arte e geografia astronomica - non mi ero preparato bene. Lo dissi sinceramente subito prima delle interrogazioni. Trovai per fortuna due commissari comprensivi. Il professore di storia dell’arte mi chiese di parlargli di un argomento che mi piaceva e io scelsi l’Impressionismo, sul quale avevo un po’ di conoscenze, acquisite più che altro per interesse personale. Il docente di geografia astronomica, invece, mi chiese la forza gravitazionale. Per fortuna ebbi l’intuizione che avesse qualche analogia con la legge di Coulomb, che avevo studiato bene nel programma di fisica, e riuscii così a dirgli la formula giusta. Finiti tutti gli orali ebbi la bella sorpresa di essere stato promosso, anche se con un voto basso (38/60), ma non il più basso (36/60) con cui si diplomò qualche altro nostro amico. Il mio amico con cui mi ero preparato e l’altro nostro compagno di classe con cui eravamo usciti quell’anno scolastico furono promossi anche loro con due votazioni leggermente superiori alla mia. Noi tre fummo gli unici promossi di tutta la classe, il che mi dispiacque per gli altri che si erano dati da fare ma non erano riusciti a diplomarsi.

Dopo gli esami ripresi a frequentare sia il mio compagno di classe e i suoi amici, sia il gruppetto dell’ex-Cpv. Con quest’ultimo, l’11 luglio 1979, andai a sentire un concerto di B.B. King al velodromo Vigorelli di Milano. Uno dei nostri amici, quello con cui avevo sempre legato di meno, anche se ci conoscevamo dall’infanzia e abitavamo nello stesso condominio, rimase così entusiasta che ci trascinò tutti alla ricerca dei camerini dopo potevamo trovare B.B. King e la sua band. Li trovammo e riuscimmo ad entrare, senza essere fermati da nessuno, in una saletta dove erano tutti riuniti. B.B. King fu molto gentile e forse anche divertito. Ci facemmo scattare da qualcuno delle foto insieme al bluesman e agli altri musicisti. Mi sono sempre chiesto se da qualche parte del mondo esistono ancora quelle foto o almeno i loro negativi.

Qualche giorno dopo, il mio amico del quartetto di amici del 1976, un altro di quelli che si erano aggiunti a noi più tardi,  e con cui avevamo fondato il Cpv, ed io ci recammo in una casa sul lago di Como del primo. Poche ore dopo che ci eravamo sistemati io ho iniziato ad avere un disturbo neurologico. Non ricordavo più dove eravamo, chi c’era effettivamente (un mio amico si accorse che dicevo che c’era mio padre in un’altra stanza) e poi chi fossi io e chi erano loro. Ero cosciente solo che erano bravi con me. Uno o due giorni dopo mi tornò la memoria e rientrammo a Milano. 

Poi, come tutti gli anni, raggiunsi la mia famiglia al Camping Grigna di Ballabio. Lì mi rilassai e mi ripresi bene. C’erano gli amici di tutti i sessi, tutte le età, tutte le provenienze e tutti i modi di vivere diversi di sempre. Per qualche giorno portai su un amico del gruppo del mio compagno di classe, che aveva avuto dei diverbi in famiglia ed era voluto andarsene via di casa. Di giorno stava con me e la mia compagnia, mangiava con noi, e di notte dormiva nella nostra macchina. Poi tornò a Milano dalla famiglia. Io mi rimisi - sempre per modo di dire, ossia quasi esclusivamente platonico - con la ragazza di cui ero sempre stato un po’ innamorato. Un’altra, più grande, invece, una sera mi propose di andare a dormire nella sua roulotte con lei ma io declinai l’invito perché ero troppo perso per quella con cui, però, non combinavo molto. 

Forse, essendomi già tolto la soddisfazione di aver avuto un rapporto sessuale completo prima dell’estate - anche se l’esperienza era stata molto pregiudicata dal mio stato mentale del momento - non mi interessava fare di nuovo sesso. Sospinto anche dalla malinconia per l’avvicinarsi dei rientri dalle vacanze (e la mia ragazzina non mi aveva assicurato che ci saremmo rivisti prima dell’estate successiva) quei giorni scrissi anche una poesia, un sonetto, triste, in cui associavo l’arrivo dell’autunno e del maltempo con la fine della giovinezza e l’incombere dell'età adulta. Questa era simboleggiata, più che dalla fine del liceo e l’inizio dell’università, dal fatto che il 10 gennaio 1980 avrei compiuto 20 anni. Le poche persone a cui fece leggere la poesia - che peraltro non era l’unica scritta su un certo quadernetto in quegli anni - la trovarono abbastanza ben scritta ma ingenua.

Al rientro a Milano, la vita riprese esattamente come l’avevo lasciata prima, con le stesse abitudini e le stesse frequentazioni. Aumentarono quelle con gli amici del quartiere che si erano uniti al quartetto iniziale con la nascita del Cpv. Con alcuni di loro, il 9 settembre, andammo in auto a Bologna a sentire un concerto di Patti Smith. Riuscimmo a trovare un posto nel prato dello stadio molto vicino al palco. Il concerto mi piacque, e mi restai estasiato soprattutto durante una canzone in cui Patti Smith eseguì, a pochi metri da dove mi trovavo, dei lunghi assoli con il sax soprano. Quello strumento mi piaceva molto. E per la cronaca non era la prima volta che lo sentivo suonare dal vivo, poiché nel 1978, poco tempo dopo che avevo conseguito la patente di guida, insieme a mio fratello e al mio caro amico con cui abbiamo passato molto tempo insieme da soli fra la fine del 1976 e gli inizi del 1977, eravamo andati una sera a Cremona ad ascoltare un concerto del jazzista Steve Lacy. Ma, mentre quest’ultimo avevo fatto molta fatica ad ascoltarlo, perché si trattava di free jazz, gli assoli di sax soprano di Patti Smith mi penetrarono nella testa e nel cuore con piacere, e non mi sarei mai stancato di ascoltarli.

Durante il resto del mese, il gruppo di amici ex Cpv cominciò a sciogliersi. Mio fratello era già tornato a frequentare dei nostri amici di infanzia. Io continuai a verdermi con gli altri e un giorno chiesi, all’amico con cui avevo sempre legato di meno, come mai prima dell’estate mi avevano cercato, dopo un periodo in cui mi avevano emarginato. Lui mi rispose che si erano accorti che io stavo incamminandomi su una strada pericolosa con altri miei amici e che temevano che avrei compiuto qualche passo eccessivo che poi avrebbero potuto iniziare a compiere anche loro. Insomma, in qualche modo avevano cercato di stringere nuovamente i nostri legami per cercare tutti insieme di salvarci da un destino fatale. Io presi atto di questa confessione, che però non ritenni una conferma di un disamore nei miei confronti. Mi resi conto che anch’io avevo posto delle cause per il comportamento scostante che loro avevano avuto verso di me. A partire da quello di ritenermi un po’ più colto e intelligente. 

Purtroppo, però, verso quella strada pericolosa io avevo continuato ad andare ugualmente e anche loro avevano iniziato a incamminarsi. Dopo quel dialogo, io continuai ancora per un po’ di tempo a frequentare il mio ex compagno di scuola e altri ragazzi del quartiere. Intanto mi ero iscritto alla facoltà di Fisica dell’Università Statale di Milano, con l’obiettivo di diventare un astrofisico e scoprire i misteri dell’universo. Sia il mio ex compagno di scuola con cui avevo passato buona parte dell’anno, sia il mio migliore amico dall’infanzia (che andavo a trovare di tanto in tanto a casa sua la sera tardi), si iscrissero invece a Ingegneria Elettronica al Politecnico di Milano. 

Una sera, mentre mi trovavo seduto a un tavolino del bar Frison in attesa di qualche amico con cui passare la serata, arrivò da solo uno dei miei amici più grandi con i quali avevo iniziato a praticare il buddismo di Nichiren Daishonin fra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Mi chiese se volevo andare con lui alla birreria La Clinica di via Torricelli, sui Navigli. Accettai l’invito. Quando fummo là, si fece raccontare da me come stavo vivendo in quel periodo. Chiunque mi avesse guardato bene capiva che non scoppiavo di salute, né fisicamente né psicologicamente. Mi disse che se volevo risolvere una volta per tutte la situazione l’unica alternativa era ricominciare a praticare. Accettai anche questa proposta e dal giorno dopo inizia a frequentare lui e gli altri buddisti della zona tutti i giorni. Questo mio amico mi disse anche che, se mi sentivo in pericolo se fossi uscito di casa durante il giorno, era meglio se restavo a casa e poi uscissi con loro nel tardo pomeriggio e la sera. Così smisi per qualche tempo di vedere gli amici di prima. 

Una sera, il nostro amico chitarrista blues mi portò a casa della persona che gli aveva parlato per la prima volta del buddismo e a me sembrò che fosse quasi un buddha in persona, tanto era felice e convinto delle cose che diceva. Sempre a casa di quel ragazzo, che allora aveva 28 anni come il mio amico chitarrista, una di quelle sere incontrai un giapponese di trentasei anni, che praticava circa sedici anni. Abitava da qualche anno in Italia e risiedeva a Bergamo. Spesso, prima di tornare dalla sua famiglia, si fermava a Milano per incontrare dei giovani praticanti. Il giapponese mi lasciò parlare a lungo, mi fece alcune domande, si prese anche qualche appunto, e alla fine, con una voce calma e in grado di toccare il cuore mi disse: “Devi avere più rispetto di te”. Quelle parole mi fecero capire quale era stato il mio problema più grande di quegli ultimi anni. Qualche settimana più tardi, portai sempre in quella casa il mio ex compagno di classe, con cui ogni tanto avevamo iniziato a incontrarci all’università fra una lezione e un’altra: Fisica non era distante dal Politecnico. Anche in quell’occasione c’era il responsabile giapponese. Per almeno una mezz’ora recitammo Daimoku (la frase che riteniamo rappresentare la Legge mistica universale). Anche il mio amico lo fece con noi. Poi il giapponese parlò un po’ anche con lui. Lui però non decise di iniziare a praticare e dopo di allora ci rivedemmo sempre meno frequentemente, anche se ho continuato a pensare a lui molto spesso. (fine)

(pubblicazione riservata - Riccardo Cervelli 2022)



Autobiografia giovanile - Cap. 39 - Anno mistico

 Nella classe dei biennio quarta-quinta in cui mi ritrovai nell’autunno 1978, all’Unione Professori di via Torino, feci inizialmente conoscenza con il mio compagno di banco. Durante una delle prime chiacchierate che facemmo gli raccontai qualcosa del mio viaggio in Marocco. Il giorno stesso, o quello successivo, mi avvicinò un altro compagno il quale mi disse che, stando in un banco dietro il nostro, aveva sentito del mio viaggio in Marocco e che anche lui era interessato a certi argomenti che avevo toccato a proposito di questa esperienza. Diventammo così amici. 

Intanto, con alcuni dei vecchi amici del Cpv e qualche altro amico che non ne aveva fatto parte, alcuni pomeriggi ci trovavamo nella casa occupata. Però non utilizzavamo più i due locali storici del primo piano, ma andavamo in un appartamento del terzo che, l’anno prima, era occupato dai fricchettoni che erano stati mandati via dal Mls. Anche quest’ultima ormai non si faceva più vedere alla casa occupata; del resto i suoi membri venivano tutti da fuori zona. Quando andavamo alla casa occupata passavamo lì solo del tempo a divertirci e sentirci raccontare qualcosa da qualche amico più grande. Poi, verso Natale, io, mio fratello, e altri due del gruppo che si era unito a me e ai miei tre amici dalla fine del 1976 (ricordo anche che ci conoscevamo già dalle elementari) decidemmo di passare il capodanno ad Amsterdam. 

Arrivammo ad Amsterdam in treno il giorno di Santo Stefano e alloggiammo in un ostello vicino a piazza Dam in una camerata molto grande. Di notte eravamo in tanti a dormire sui letti a castello, ma non facemmo amicizia con nessuno. Preferimmo stare fra di noi. Passammo le giornate passeggiando per la città. Un fatto divertente che ci capitò fu quello di entrare in un pub, stare per ordinare della birra, ma accorgerci subito che nel locale c’erano solo uomini che ci fissavano e ci lanciavano occhiate ammiccanti. Fu quella la mia scoperta dell’esistenza di luoghi riservati ai gay. Siccome ci sentimmo a disagio, perché in quegli anni non era così frequente conoscere e frequentare persone con un orientamento omosessuale (ne conoscevamo tutti solo uno, che veniva qualche volta alla casa occupata), non ordinammo, salutammo e andammo a cercare un altro locale. Ogni sera andavamo invece in un club grande che si chiamava Paradiso. Esternamente sembrava una casa occupata. All’interno c’era una grande sala dove si tenevano dei concerti. Ovviamente c’era anche un bancone per ordinare da bene e, in un pianerottolo delle scale, c’era una piccola rivendita di hashish e marijuana, con tanto di listino prezzi appese sulla parete. Al Paradiso, una sera, ascoltammo un concerto di Jim Capaldi, l’ex batterista dei Traffic, uno dei complessi che avevo iniziato a conoscere nel 1974 ascoltando il programma Popoff alla radio sul canale Rai Radio 2. Non ho moltissimi ricordi di quel viaggio.

Amsterdam Paradiso
Sulla destra il club Paradiso di Amsterdam nell'inverno 1978-1979

In seguito formammo un trio affiatato anche con un altro compagno di classe. Tutti e tre avevamo diversi interessi comuni. Il primo che avevo conosciuto (dopo il mio compagno di banco), proveniva da un’altra scuola privata e abitava vicino a viale Argonne, non lontano dal liceo da cui arrivavo io: il liceo scientifico Donatelli di viale Campania. Il secondo, invece, abitava al Gallaratese e non ricordo quale scuola avesse frequentato prima. La famiglia era - almeno in parte - marchigiana. Tutta la famiglia, o uno dei genitori, erano proprietari di un albergo sulla costa, a nord di Ancona. Tutti e tre amavamo la musica e fra le prime cose che facemmo insieme fu quella di andare a suonare in una sala prove: io, che in quel periodo stavo riavvicinandomi al piano, anche se senza più il ricorso al materiale didattico ma “andando a orecchi”, scelsi di suonare un organo; il compagno del Gallaratese si mise alla batteria e l’altro alla chitarra. Per la verità non sapeva ancora suonarla, ma gli insegnai un po’ di accordi che poteva fare senza difficoltà. Non suonammo molto e ci limitammo per lo più a provare gli strumenti e a improvvisare per capire quale genere di musica era più nelle nostre corde. L’amico che abitava al Gallaratese ci aveva proposto di chiamarci Mystic Lay Brotherhood; io e l’altro accettammo ma già nei giorni successivi non parlavamo più di questo nome. Riuscimmo a inventare un pezzo che ci tenne impegnati almeno una decina di minuti. Quella fu l’unica volta che suonammo tutti e tre insieme.

Cominciammo anche a uscire qualche pomeriggio dopo la scuola. Almeno una o due volte ci recammo al Parco Lambro. Due o tre volte andai a dormire a casa del compagno del Gallaratese, che mi fece ascoltare alcuni dischi di Max Roach, il batterista che preferiva. Era un musicista jazz e anche a me piacque quello che ascoltai. Uscendo con l’altro amico che abitava vicino viale Argonne, ebbi modo di conoscere la sua ragazza, con cui stava da diverso tempo. L’amico mi raccontava delle cose che facevano insieme e che io non avevo ancora iniziato a fare con nessuna. L’altro non ricordo se avesse una ragazza. In caso positivo non abitava a Milano, ma forse nelle Marche. Con quest’ultimo facemmo qualche giorno in montagna da me in roulotte.

Parco Lambro 1979 montagnetta
Foto scattata da me al Parco Lambro fra l'inverno e la primavera del 1979

Sempre in quei primi mesi del 1979 continuavo a uscire anche con gli amici del quartiere che avevo iniziato a frequentare nel 1978. I miei tre amici con cui, alla fine del 1976, avevo iniziato ad andare alla casa occupata, e con cui avevamo deciso di sistemare un appartamento per trovarci a suonare e svolgere altre attività di tipo artistico, non li vedevo più. Uno, forse, era andato a svolgere il servizio militare in anticipo, non so per quali strade, ma comunque era entrato nella squadra sportiva dell’esercito perché era un bravo sciatore da quando era bambino. Dico che doveva essere partito in anticipo perché, nella primavera e estate 1979 era di nuovo a Milano e mi raccontava alcune esperienze del periodo militare. E lui aveva circa due anni meno di me: quindi, a conti fatti, forse era partito volontario minorenne. Di certo non era un militarista, a forse aveva compiuto questa scelta per qualche ragione particolare, fra quali potrebbe esserci stata quella di levarsi il pensiero di dover partire per la leva più avanti. Nel 1978, del resto, anche lui come me non stava frequentando regolarmente la scuola, e forse i suoi gli avevano prospettato quella possibilità in un momento in cui però non ci stavamo frequentando. 

Quando arrivò la bella stagione, con un grosso gruppo di amici e conoscenti che avevano gravitato intorno alla casa occupata e che ora si incontravano al bar Frison, la sera cominciai ad andare spesso sulle gradinate della chiesa Madonna di Fatima. Qualcuno portava la chitarra, fra cui io, e una di quelle disponibili la suonava quel ragazzo grande che era tornato da Londra un anno, un anno e mezzo prima, e che aveva iniziato a suonare con una band abbastanza famosa di Milano. 

Dopo che era tornato da Londra, quel ragazzo aveva iniziato a praticare il buddismo di Nichiren Daishonin, a cui era stato convertito da un ragazzo della sua età che abitava a San Donato Milanese. Allora i praticanti di questo buddhismo giapponese, che facevano capo all’organizzazione laica Soka Gakkai, in tutta Italia erano poche centinaia. Diverse decine abitavano a Milano o nei dintorni. Ma si era creato soprattutto un grande gruppo a San Donato, e in particolare nel suo quartiere Metanopoli, dove abitavano soprattutto famiglie di impiegati e dirigenti di aziende del gruppo Eni, che lì aveva la sua sede. Nel 1975 o 1976, un giovane di Metanopoli, anche lui di circa otto anni più grande di me, era stato convertito al buddismo di Nichiren Daishonin da un batterista jazz afroamericano che veniva spesso in Italia. Subito lui parlò di questa pratica a tutti i suoi amici, e molti iniziarono a praticare anche loro. Intanto, altre persone, venute a conoscenza di questo buddismo per altre strade, avevano iniziato in altre città italiane. Ma fu soprattutto a Metanopoli che ci fu un rapido sviluppo, perché ragazzi e ragazze sempre più giovani, molti dei quali frequentavano le scuole dell’istituto omnicomprensivo di San Donato, si misero a praticare. 

Personalmente, già dal 1978 circa, io avevo iniziato ad interessarmi di filosofie orientali. Per qualche mese, fra il 1978 e il 1979, con qualche altro ragazzo della casa occupata avevo iniziato a frequentare un corso di yoga. Ogni tanto mi compravo qualche libro sullo yoga e sul buddismo. La sera che, davanti alla chiesa di Fatima, dopo aver suonato per circa un’ora la chitarra, il ragazzo tornato da Londra e convertito al buddismo di Nichiren Daishonin iniziò a parlarne a me, come aveva fatto le altre sere con altri, io gli dissi: “Non c’è bisogno che cerchi di convincermi. Ti ho ascoltato già le altre sere. Voglio provare a praticare anch’io”. Così iniziai a dire tutti i giorni, mattina e sera, le preghiere (consistenti nella recitazione continua di una frase, che rappresenta la Legge Mistica dell'universo, e nella lettura di parti di due capitoli del Sutra del Loto del Budda Shakyamuni) e ad andare a qualche riunione organizzata nelle case di alcuni praticanti a Milano. Ma dopo un paio di mesi, lo stile di vita che avevo intrapreso in quel periodo con alcuni amici, si dimostrò troppo in conflitto con quello di un serio praticante buddista e così smisi di praticare e di andare alle riunioni. Ciò nonostante, spesso, mentre mi ritrovavo a guidare il motorino per le vie di Milano, mi ritornavano nella mente delle parti del Sutra che ormai avevo imparato a memoria. Non c’era niente da fare: si erano come incarnate nella mia mente. Allora mi mettevo a cantare qualche canzone, fra le quali, mi ricordo chiaramente, c’era L’anno che verrà di Lucio Dalla, pubblicata sull’omonimo album uscito all’inizio del 1979. 

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


Autobiografia giovanile - Cap. 38 - Campeggio e nuova scuola

Riccardod Cervelli 18 anni 18yo
Io ancora a Tengeri, sulla spiaggia con un amico tedesco, nell'estate 1978
 

Dopo il viaggio di ritorno all’insegna della fame dal Marocco a Milano e il pranzo con mio padre, ancora impegnato nel lavoro, come ho già scritto, raggiunsi il resto della famiglia al Camping di Grigna di Ballabio. Qui ritrovai quasi tutti i miei amici e le mie amiche conosciuti nelle due estati precedenti. A questi, in quelle settimane si aggiunsero altri ragazzi e ragazze che non avevamo mai visto prima ma che si integrarono nel nostro gruppo già bello numeroso. Io continuavo ad essere il “chitarrista”, nel senso che mi portavo quasi sempre dietro la chitarra ed eseguivo, per chi volesse ascoltare, un repertorio di canzoni soprattutto di cantautori italiani come Edoardo Bennato, Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Claudio Lolli. Non mancava anche qualche brano internazionale, come alcuni pezzi del Crosby Still Nash & Young (quelli dell’album Four Way Street) o di Bob Dylan. A volte si univa a me nel suonare l’amica coetanea che a Milano frequentava l’istituto tecnico per il Turismo Varalli. 


Giorno dopo giorno mi ripresi dagli stenti del viaggio di ritorno dal Marocco e iniziai una serie di settimane di divertimento e di lunghe chiacchierate con ragazze e ragazzi che, quando non erano su un vacanza al campeggio, praticavano stili di vita molto diversi dal mio, senza escursioni in territori al di là della legge e del buonsenso. Erano, insomma, quello che nel gergo mio e dei miei amici che frequentavo di più a Milano, del “regolari”. Mi ero anche lasciato alle spalle un'esperienza una tantum di salto di qualità nell’utilizzo di sostanze. Furono settimane in cui forse le uniche esperienze di sballo furono qualche birra in più con qualcuno più grande di me. C’era un addetto adulto del campeggio che, qualche volta la sera, portava me e qualche altro di noi più grandicelli a Lecco. Fu durante una di quelle uscite che feci la prima scoperta delle “angurie al gelo”, di cui divenni molto goloso da allora in poi. Un’altra volta mi portò a cena in un ristorante che si trovava fuori Lecco, all’inizio della salita per la Valsassina, dove mangiai per la prima volta le rane fritte, che trovai deliziose. E sicuramente le annaffiammo con del buon vino o della birra.

A metà agosto circa, scesi a Milano con mio padre per un imprevisto che era avvenuto nella parentela. Quasi tutti gli anni, durante la permanenza al campeggio di Ballabio, una volta ero sceso a Milano con mio padre, per motivi diversi. La prima volta, credo nel 1976, lo feci per tenergli compagnia ma anche perché avevo sentito per la prima volta che era alcuni mesi precedenti (dicembre 1975) era nata Radio Montevecchia, una nuova radio privata che irradiava il suo segnale dalla collina vicino a Monza verso Milano, ed ero curioso di ascoltarla. L’anno dopo, invece, accompagnai mio padre a casa nostra per - credo - uno sopralluogo, e la sera decidemmo di andare a vedere un film. C’erano pochissimi cinema aperti e finimmo per andare in uno dove proiettavano il film Maladolescenza, un film uscito nel 1977 di Giuseppe Murgia e che trattava delle prime esperienze erotiche di due ragazzine (interpretate da Eva Ionesco e Lara Wendel) e di un ragazzino (Martin Loeb), con scene di nudo che oggi sarebbero bandite come pedopornografia. Nel 1978, invece, quando scesi andammo a trovare mio nonno paterno e allora rafforzai il mio legame con lui, in un modo che non si era potuto verificare negli anni precedenti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Oltre che suonare, nella compagnia del campeggio di Balisio, giocavo molto con amici di tutte le età. In effetti stavamo quasi sempre tutti insieme in un salone, quello dove c’era il ping pong. A me si era molto affezionata una bambina di dieci anni più piccola di me, sorella minore di due amiche di età più prossima alla mia. Questa bambina trovava in me la persona che riusciva ad entrare nel suo mondo psicologico e con cui riusciva a parlare, molto più che con gli altri bambini della sua età. Intanto però io avevo iniziato ad essere attratto da una ragazza che trovavo da sempre molto carina e con cui decidemmo che stavamo insieme, in quel periodo di vacanze, ma senza che fra noi avvenisse qualcosa di molto più spinto di abbracci, bacini, carezze innocenti e così via. Lei mi ascoltava molto, sia suonare ma anche raccontare le mie esperienze. E quell’anno c’era sicuramente il viaggio in Spagna e Marocco. Di lei, invece, non parlava molto, forse perché ero io a monopolizzare i discorsi o forse perché era una ragazza che viveva come la maggior parte di quelle della sua età. Con la mia amica coetanea, invece, capitava che parlavamo di politica. Feci anche molta amicizia con un ragazzo della Brianza che alloggiava con i suoi in un appartamento fuori dal campeggio e con il quale, negli anni successivi, iniziammo a fare delle escursioni sulla Grigna. 

Ogni tanto, siccome io ero forse l’unico ad avere la patente, caricavo più ragazzi e ragazze possibili sulla Opel Kadett familiare e li portavo fino a Barzio. Per qualche tempo si unì alla nostra compagnia anche un uomo adulto single, che era venuto in campeggio da solo, forse con una tenda. E un giorno andammo a fare una passeggiata tutti insieme vicino a Moggio. Al ritorno io volli fare il bullo e spinsi la mia auto a tutta velocità, mettendo a rischio me e tutti i miei passeggeri. Superai il nostro amico adulto, che guidava un’altra macchina e stetti davanti per tutto il percorso fino a Colle di Balisio, dove si trovare per la precisione il campegno di Ballabio. Raggiunta la strada principale della Valsassina mi fermai allo stop. Fu allora che il nostro amico mi raggiunse e mi superò, vincendo così la gara a chi arrivava prima al campeggio. Fra le cose belle che facemmo durante quelle vacanze, grazie anche all’autonomia che ci concedeva il mio avere la patente, ci fu andare a Barzio a vedere il divertentissimo film Animal House, uscito da poco, diretto da John Landis e in cui vidi e apprezzai per la prima volta l’indimenticabile attore John Belushi. 

Poi le vacanze finirono e tornammo tutti nelle nostre rispettive città. Rientrato a Milano ricominciai a vedere i miei amici nuovi con cui avevo cominciato ad uscire quasi sempre dopo che avevo smesso di frequentare la parte rimanente di quello che una volta era stato il Cpv, ossia gli amici che si erano uniti a me e ad altri tre nella seconda metà del 1977. Come ho già scritto, con quel gruppo, dopo i fatti collegati allo sgombero dei fricchettoni che abitavano al terzo piano della casa occupata da parte di una squadra di militanti del Mls, visto che non mi sentivo benvoluto, mi ero allontanato da quegli amici. Nel frattempo, sempre come già riportato nella puntata precedente avevo cessato quasi del tutto (se non del tutto) di andare alla casa occupata.

Il nostro appartamentino su due piani che avevamo sistemato per farne la sede del Cpv nella seconda metà del 1977 e nei primi mesi del 1978, ormai erano abbandonati. I fasti di quel luogo erano diventati in breve tempo roba del passato. Prima che io e altri due miei amici dalla fine 1976 ci staccassimo dal gruppo ex Cpv, uno di loro (quello che aveva la casa in montagna dove andavamo spesso) aveva portato nei locali del Cpv il suo impianto di amplificazione. Doveva trattarsi ancora dei primi mesi del 1978. Avevamo montato l’impianto nella stanzetta del secondo piano e qualche volta ci mettevamo lì a suonare. In quel periodo, da qualcuno dei nostri amici più grandi, che ogni tanto venivano a farci visita, avevamo sentito che un loro amico chitarrista era da poco tornato da Londra, dove era stato per molto tempo e aveva conosciuto e suonato qualche volta con Eric Clapton. Ebbene, una sera, mentre ci trovavamo tutti nella stanzetta a suonare, dal buco dove sbucava la scaletta con cui si accedeva al locale, apparve un ragazzo alto, con un aspetto molto più grande di noi, i capelli lunghi. Ci salutò e ci chiese se poteva suonare anche lui. Era il ragazzo, che allora aveva circa 26 anni, tornato poco da Londra. Prese in mano una delle due chitarre elettriche che avevamo lì e iniziò a suonare. Mi sembra che io lo accompagnai solo con gli accordi che mi diceva di fare. Lui invece improvvisava con una tecnica che non avevo mai visto finora da nessuno, almeno da pochi metri di distanza. Siccome però avevamo il volume alto fu proprio in quella occasione (e non nelle altre in cui avevamo suonato fra di noi) che poco dopo qualcuno che abitava nelle vicinanze chiamò la polizia. 

Fatto sta che mentre stavamo suonando, sempre dallo stesso buco nel pavimento si palesarono due agenti. Io rimasi tranquillo perché pensavo che fossero i vigili urbani che avevamo già conosciuto. Infatti stavo per dire che la nostra presenza lì era un fatto risaputo dal loro comandante o collega superiore, quando notai la riga rossa sui loro pantaloni grigi. Allora mi scappò da dire: “Ah, voi siete della PS”. Comunque gli agenti si limitarono a riportarci le lamentele ricevute e noi decidemmo o di abbassare notevolmente il volume o di smettere addirittura di suonare. Del resto era ormai sera tardi. La polizia se ne andò senza effettuare nessuna identificazione e scrivere alcun verbale. Ci salutarono, forse, facendo le solite raccomandazioni di rito, e se ne andarono. Fu così che conobbi quel famoso chitarrista, che era tornato dopo anni ad abitare nel nostro quartiere (e che un anno e mezzo o due dopo scoprii essere stato un grande amico del ragazzo della Comunità di Cl che mi aveva insegnato a suonare la chitarra) e che ebbi, per la prima volta l’onore di suonare con lui.

Tornando alla fine dell’estate 1978, oltre ai miei nuovi amici acquisiti quell’anno nel quartiere, ripresi anche a vedere gli altri dai quali mi ero allontanato mesi prima perché mi ero sentito non più gradito. E ciò era dimostrato dal fatto che, dopo un po’ che ci eravamo ritrovati nello stesso posto, a un certo punto loro se ne andavano via senza invitarmi a seguirli (portandosi dietro anche l’amico della fine 1976 che non si era già distaccato dal gruppo) e io restavo da solo. E a quel punto o me ne tornavo a casa o andavo a cercare gli altri amici dai quali invece mi sentivo benvoluto, fra i quali i nuovi o quelli più grandi di me e che frequentavano il bar Frison. 

Ma al rientro delle vacanze, come ho scritto più sopra, si riallacciò il rapporto con questi, ai quali nel frattempo si era unito anche qualcun altro, fra cui un mio ex compagno delle elementari che non avevo mai frequentato prima. Intanto, però, avevo iniziato a frequentare una nuova scuola: il terzo diverso istituto della mia carriera liceale. Si trattava di una scuola privata situata in via Torino e che offriva la possibilità di fare due anni in uno. Già, perché mia madre, santa, dopo che avevo smesso di frequentare decisamente il Donatelli prima della fine dell’anno scolastico 1977-1978, e che avevo manifestato l’intenzione di dedicarmi all’agricoltura (a partire dall’esperienza dell’orto), mi convinse a finire il liceo. Del resto la mia scelta di non andare più a scuola e iniziare qualche tipo di lavoro non era mai stata frutto di molti ragionamenti. Continuavo, a latere di molte altre cose, a interessarmi di scienze e di filosofia. Così quando si parlò di frequentare quel biennio per prendere il diploma, accettai volentieri, mettendo fra i miei obiettivi futuri anche quello di iscrivermi all’università. Tra l’altro, la stessa scelta che aveva fatto la mia famiglia l’aveva fatta anche quella di un mio vecchio amico d'infanzia, di condominio ed ex compagno di scuola, con cui quindi potevo riprendere a fare la strada insieme per la nuova scuola, anche se eravamo nella stessa classe. In questa invece subito feci amicizia con i nuovi compagni, con due dei quali, poco tempo dopo abbiamo iniziato a uscire insieme.

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


Autobiografia giovanile - Cap. 37 - Orto, Spagna e Marocco

Riccardo Cervelli 18 anni 18yo
Io a 18 anni

 Dopo i fatti alla casa occupata che hanno visto come aggressore l’Mls nei confronti dei fricchettoni che occupavano il terzo piano e che hanno portato alla mia, e alla nostra reazione di vendetta, pian piano smettemmo di andare alla casa occupata stessa. I rapporti con gli altri dell’ormai ex-Cpv si allentarono. In occasione delle festività pasquali, insieme a mio fratello, due dei miei amici pre-Cpv e due ragazzi che si erano uniti a noi negli ultimi tempi, e che erano stati miei compagni di classe all’Einstein, feci un viaggio ad Assisi e a Firenze. Ad Assisi andammo nello stesso campeggio dove ero stato da dodici-tredicenne. La mattina dopo la prima notte, ci svegliammo che sul prato fuori dalle tende c’era della neve. I miei ricordi di quei giorni sono un po’ confusi. Forse vivevo in uno stato di lucidità un po’ appannata. 

Al ritorno, comunque, iniziai a frequentare altre persone del mio quartiere, meno dedite a uno stile di vita sopra le righe come il mio, ma con cui comunque c’erano comunque affinità. E loro dimostravano nei miei confronti un forte senso di amicizia. Fra questi c’era la ex ragazza di uno dei miei più cari amici dalla fine del 1976 fino a pochi mesi prima (quando l'avevo perso di vista) e altre due ragazze. Era insomma una compagnia più mista di quella precedente. Anche loro, ma più raramente, erano venuti alla casa occupata nel periodo Cpv. Ricordo, in particolare, che una di queste ragazze una volta decise di fare quello che noi stavamo rimandando da tempo per mettere in ordine due locali che si trovavano sopra i nostri due e che noi avevamo collegato con una scala autocostruita. Si trattava di portare in cortile una vecchia stufa. Appena seppe quale era il nostro obiettivo, lei, come se nulla fosse, prese da sola la stufa, uscì sul ballatoio del secondo piano e buttò la stufa nel prato dietro la casa occupata. Rimasi stupito della forza, oltre che della decisione, di questa ragazza, che qualche anno dopo diventò una delle prime vigilesse a Milano.

E la scuola? Mi stavo dimenticando di dire che da metà novembre fino a metà febbraio circa eravamo stati in autogestione. Poi avevo iniziato a non andarci più se non per qualche lezione che mi interessava - come filosofia, latino e inglese -, con professori che stimavo e per andare a trovare i miei compagni, la maggior parte dei quali stavano diventando per me come degli estranei. Nel giro di alcuni mesi ai miei genitori arrivarono tre lettere (che ancora ho) in cui si segnalavano le mie assenze, l’impossibilità di effettuare le valutazioni e si esprimeva preoccupazione per l’esito dell’anno scolastico. A un certo punto, io dissi a mia madre che era inutile che continuavo ad andare a scuola, che l’anno scolastico ormai era compromesso, e che preferivo dedicarmi all’orto che, nei due anni precedenti, avevo iniziato a coltivare in un prato dietro a casa mia. Mia madre accettò e un giorno mi feci accompagnare da lei al consorzio agrario di Lodi a vedere e acquistare qualche attrezzo e prodotto per l’orto. A marzo avevo superato l’esame per la patente di guida e così andammo con la macchina di famiglia in quella città. Approfittammo dell’occasione per fare un giro del centro storico. Questa gita mi è rimasta impressa come il ricordo di una bella cosa fatta da solo con mia madre.

La primavera proseguì come me che frequentavo questi nuovi amici del quartiere, qualcuno del Donatelli con cui mantenevo un legame o che conoscevo per la prima volta quelle poche volte che mi facevo vedere a scuola, e qualcuno dei ragazzi più grandi di me che avevo conosciuto fra il 1975 e il 1976 durante le prime volte che ero andato alla casa occupata di piazza Assunta, ma molti li conoscevo di vista dall’infanzia. Ormai il punto di ritrovo, però, non era più la casa occupata, bensì un bar di via Ripamonti: il bar Frison. Con un ragazzo del Donatelli che avevo conosciuto per la prima volta durante uno dei miei giri nel liceo, trascorremmo insieme un weekend. Era più giovane di me, forse di prima o seconda liceo, con i capelli lunghi biondi, un viso serafico, quasi infantile. Poi non ci rivedemmo più ma ci eravamo scambiati i numeri di telefono. Chi vedevo di più erano i nuovi amici del quartiere che consideravo più “regolari” di me e delle persone che stavo frequentando in quegli anni. Un pomeriggio fra maggio e giugno mi ritrovai a casa di una delle ragazze che non avevo mai visto negli anni passati, anche perché non abitava esattamente nel nostro quartiere. Con noi c’era la ex fidanzata del mio amico che avevo perso di vista. La padrona di casa tirò fuori una bottiglia di vino siciliano e ce lo scolammo. Restammo ubriachi e ci sedemmo sul divano. La ex del mio amico era particolarmente sbronza e io mi sentii attratto da lei, che però non mi dava corda. Nel frattempo mi accorsi che l’altra invece avrebbe voluto fare qualcosa con me, ma io ero troppo fissato sull’altra. A un certo punto, come da accordi precedenti, citofonò il mio migliore amico per farmi scendere e accompagnare lui, sua madre e suo fratello a ritirare una moto Kawasaki 650 che avevano acquistato. L’accordo prevedeva che poi avrei guidato io la moto fino a casa sua, perché lui non aveva ancora la patente e suo fratello doveva guidare la macchina con cui dovevamo andare al negozio di moto. Dissi al mio amico di salire un attimo e, da come racconta ancora lui, vide la scena di me e le due ragazze ubriachi. Allora rinunciò a portarmi con lui e, a suo rischio, guidò lui la moto fino a Vigentino.

Pian piano si avvicinavano le vacanze. Io non sapevo proprio con chi andare, visto che non avevo più rapporti con gli ex Cpv e non conoscevo ancora bene i nuovi amici. Intanto avevo avuto l’occasione di conoscere uno dei ragazzi più grandi di quelli che avevano frequentato la casa occupata ancora negli ultimi periodi in cui io andavo ancora all’oratorio. Un ragazzo di circa otto anni più grande di me e che, tra l’altro, abitava nella mia stessa via. La conoscenza con questo ragazzo, al bar Frison, mi fece molto piacere, perché parlavamo di libri e di viaggi. Lui mi consigliò di provare, almeno una volta, a fare un viaggio all’estero da solo, perché mi avrebbe permesso di fare delle esperienze che, stando con altre persone che conoscevo, forse non avrei potuto fare perché perché ci sarebbero stati comunque dei compromessi da fare. Inoltre, viaggiando da solo, potevo anche riflettere su me stesso. Decisi allora di dire ai miei che volevo andare in Spagna con un mio amico, ma in realtà pianificai di fare il viaggio da solo e di arrivare fino in Marocco.

Little beggars
Bambini che chiedono l'elemosina nella metropolitana di Barcellona nel 1978

Fu così che, con i soldi che mi feci comunque regalare per la fine della scuola (nonostante fossi stato bocciato con “non classificato” in tutte le materie, tranne filosofia) acquistai alla Transalpino un biglietto ferroviario Milano-Algeciras e ritorno. Un biglietto aperto, nel senso che potevo fare le soste che volevo, e quando volevo, lungo i due percorsi. Così, un giorno partii da Milano Centrale con uno zaino con dentro sacco a pelo, vestiti di cambio, macchina fotografica Kodak Instamatic e il libro che avevo scelto di leggere durante il viaggio: Sulla strada di Jack Kerouac. Avevo anche carta e buste, perché ero rimasto d’accordo con la mia amica a casa della quale ci eravamo ubriacati quella volta che feci il “pacco” a Mario, che le avrei scritto un po’ di lettere su cui era scritta una sorta di diario di viaggio.

La prima sosta la feci a Barcellona, che trovai una città molto bella. Mi sistemai in una pensioncina all’inizio della Rambla, la quale fu poi il fulcro di quella tappa, nel senso che non visitai molti posti, ma soprattutto quelli che c’erano intorno a quella arteria. Poi ripartii alla volta di Madrid. Il viaggio fu molto lungo e rimasi stupito di vedere, lungo il percorso, vasti territori aridi e quasi deserti su cui il tramonto era molto affascinante. Arrivato a destinazione, scelsi un’altra pensione. Il luogo più importante che visitai fu il museo Prado, dove rimasi un po’ di tempo ad ammirare alcuni famosi quadri, fra i quali la Maya Desnuda di Goya e alcuni dipinti di Bosch. Per mangiare acquistavo sempre delle tapas in qualche bar, che consumavo seduto al bancone. Mi piacevano in particolare le olive spagnole nere. Per accompagnare le tapas bevevo soprattutto vino e poi concludevo con del café solo, ossia nero e senza leche (latte). Non ricordo quante notti mi fermai. Feci amicizia, da finestra a finestra, con un bambino di circa quattro anni che si chiamava Pedro, da cui ci divideva un cortile interno. Una sera, invece, mentre ero sdraiato sul letto, sentii armeggiare alla maniglia. Era come se qualcuno cercasse di entrare. Mi alzai lentamente e aprii la porta di scatto. Feci in tempo a vedere alcuni bambini scappare di corsa lungo il corridoio. Evidentemente avevano visto che ero un ragazzo e volevano farmi solo uno scherzo. L’ultima sera rientrai nella pensione ubriaco. Mi sdraiai sul letto e iniziai a sentire la stanza girare. A un certo punto feci giusto in tempo a prendere un sacchetto di plastica e rimisi. Non sapendo dove buttare il sacchetto lo gettai in cortile. La mattina presto, per timore che scoprissero quello che avevo fatto, me ne andai senza farmi notare. Per fortuna avevo già saldato il conto.

Il piccolo Pedro

Presi un treno verso l'Andalusia e mi fermai a Cordova, che era lungo il tragitto. La cittadina mi piacque tantissimo. In particolare rimasi estasiato a vedere la Grande Moschea con tutti i suoi mosaici e le arcate. Lì comprai un piattino nero con delle decorazioni dorate da portare ai miei come ricordo. Mi piacquero però anche le stradine piene di case basse intonacate di bianco e, in alcune, entrai a vedere i patio. Non avevo mai visto cortili piccoli così, pieni di piante rampicanti e altri elementi molto belli da vedere.

Sul treno che portava da Cordova a Algeciras dormii. La mattina mi svegliai sentendo parlare in Italiano. Scoprii che nel mio scompartimento c’erano una coppia di giovani - che non ricordo se erano fidanzati o marito e moglie - e due ragazzi con i capelli lunghi e un aspetto da hippie. C’era anche un giovane spagnolo. Feci subito conoscenza con tutti. I due ragazzi venivano dalla bergamasca ed erano diretti in Marocco, e precisamente a Ketama, una cittadina dove avevano sentito che si trovava del “fumo” (hashish) molto buono. La coppia, invece, era pisana ed era diretta a Tangeri, dove abitava un loro amico marocchino, che avevano conosciuto all’università di Pisa. Lo spagnolo, invece, era diretto a Ceuta, una città spagnola sulla costa del Marocco, dove contava di comprare un chilogrammo di fumo da rivendere poi in Spagna. I due bergamaschi mi invitarono a proseguire il mio viaggio con loro. Ricordo che uno mi disse: “In due si sta bene, in tre meglio”. Io accettai, ma quando arrivammo in nave a Tangeri, la polizia di frontiera lì rimandò indietro dicendo “Morocco doesn’t want hippies”. Io non ricordo se feci per dire che tornavo indietro con loro per solidarietà, se loro mi dissero di scendere dalla nave almeno io, o se dissi che mi dispiaceva e sbarcai. Intanto i due pisani mi avevano detto che potevo stare con loro. Così facemmo insieme la strada a piedi fino alla pensione dove il loro amico gli aveva detto di andare. Qui loro presero una camera matrimoniale ed io una con diversi letti. Per me era insomma come andare in un ostello della gioventù, dove non sapevi chi ti poteva capitare come compagno di stanza. Mi ritrovai con due amici tedeschi e un norvegese che viaggiava anche lui da solo come me. Io ero il più giovane di tutti, avendo solo 18 anni.

Nel pomeriggio uscimmo tutti insieme - io, la coppia di Pisa, i tedeschi e il norvegese - e ci recammo in un bazar gestito da alcuni giovani amici dell’amico dei due ragazzi pisani. Salimmo sul tetto e ci mettemmo sotto una tenda di tappeti, dove c’erano anche dei ragazzi olandesi, e un vecchio marocchino che, mi venne detto, conosceva ventitré lingue. Non so se questo fosse vero, ma riusciva a parlare con tutti noi nelle nostre lingue. A un certo punto sentii una voce che emetteva un canto. Poi subito dopo un’altra da un’altra direzione e un’altra ancora. Mi si accapponò la pelle, non per lo spavento, ma per qualcosa di inaspettato e misterioso. Uno dei marocchini mi disse: “È il muezzin”, cioè un addetto della moschea che invita i musulmani a pregare.

Tangier Bazar Riccardo Cervelli
Foto di gruppo all'interno del bazar a Tangeri. Io sono quello al centro con gli occhiali

Da quella sera cominciai a frequentare sempre il bazaar. Avevo fatto amicizia con l’amico marocchino della coppia pisana e con altri suoi amici, compresi i proprietari del bazar. Durante il giorno stavo lì a bere il té alla menta con i turisti che entravano nel bazar, alla sera andavamo a mangiare in qualche ristorantino non costoso ma buono. Fu lì a Tangeri che mangiai per la prima volta il pesce spada alla griglia e l’insalata di barbabietole, che scoprii piacermi molto. A differenza dei pisani avevo deciso di adeguarmi alle usanze locali e di non bere alcolici. Bevevo invece molto succo d’arancia. Dopo pochi giorni inviai una cartolina da Tangeri ai miei, ben sapendo che li avrei sorpresi spedendola dal Marocco e non dalla Spagna. Mi dissi che gli avrei spiegato di aver deciso durante il viaggio di andare anche in quel paese. Feci anche uno scarabocchio per fingere che li salutava anche il mio amico con cui ero partito, che non esisteva. 

Fra tutti i ragazzi marocchini che frequentavo, avevo fatto amicizia particolarmente con Sherif, che aveva poco più della mia età o forse eravamo coetanei. Una sera mi invitò a casa sua a cena. Ricordo la casa abbastanza grande, nel centro storico e una sorella che ci portò da mangiare. Credo che la vidi senza velo perché era ancora molto giovane: fuori, invece, le donne e le ragazze portavano tutte il velo. Vidi solo un’altra volta una ragazzina senza velo in piedi sulla porta di casa sua. Mi colpì molto il fatto che avesse gli occhi azzurri. Per il resto ero proprio marocchina. 

Nella zona dove abitava quella ragazza si vedevano spesso gruppi di bambini che lavoravano fuori da alcune case, che dovevano essere dei laboratori. Il loro compito consisteva nell’arrotolare, partendo da lontano, dei fili intorno a dei rocchetti. Anche i bambini di Tangeri mi colpirono molto. C’era un gruppetto che abitava nei vicoli che dovevo percorrere, la sera, per tornare dal bazaar alla pensione. Appena mi vedevano, mi venivano incontro, mi parlavano in italiano e mi accompagnavano fino quasi all’albergo. Erano molto simpatici e non mi chiedevano né soldi né altro: solo farmi compagnia. Le strade, non erano pulitissime: ogni tanto, percorrendo quei vicoli, passavo per un piccolo slargo illuminato, dall’alto, da una lampadina. Lì sentivo decine di scarafaggi abbastanza grossi correre sul selciato e colpirmi le scarpe; ma non provavo ripugnanza. Altre volte, in pieno giorno, si vedevano dei topi camminare tranquillamente lungo i cordoli dei marciapiedi a caccia di qualche avanzo di cibo.

Rimasi a Tangeri almeno tre settimane. Durante la permanenza, insieme ai due ragazzi pisani, al loro amico e a qualcuno dei nostri amici stranieri, facemmo una gita in pullman fino a Tétouan. Ricordo che, durante il viaggio, a un certo punto il pullman si fermò e salirono delle persone con delle capre. A Tétouan visitammo un forte e girammo per le vie della città. Rimasi impressionato dalla quantità di piccoli negozi che vendevano oggetti d’oro. Mi dissero che non era un oro purissimo, ma dai banchetti arrivava un bagliore di luce del sole riflessa che sembrava di essere in un forziere. Una sera, invece, i ragazzi di Pisa e io fummo invitati a casa dell’amico universitario. La famiglia era molto benestante. Ci disse che avevano tre pescherecci. La casa era molto grande, con stanze dai soffitti alti e stuccati. Ci accomodammo in angolo rialzato della sala e lì mangiai per la prima volta del cous cous. Dentro c’era molto pesce buonissimo. 

Una stradina di Tétouan

Una caratteristica che avevano i ragazzi marocchini che frequentavo - non l’amico dei pisani - era quella di parlarmi spesso della loro religione. Lo facevano in particolare Sherif e Mustafà, un altro più o meno coetaneo, con cui però non passavo molto tempo. Ammirai molto la loro fede, che comunque non si abbinava a un atteggiamento fanatico o bigotto. Era semplicemente sentita e loro desideravano che prendessi in considerazione la possibilità di abbracciarla. Ogni tanto mi facevano conoscere qualche amico adulto, o anche anziano, che conoscevano in altri punti di Tangeri. Una volta mi portarono da uno che aveva un negozio (non ricordo più di che tipo, forse una macelleria) con le pareti tappezzate da foto di famosi culturisti italiani. Me ne mostrò alcune parlandomi di chi era ritratto. Non so se fu anche quella persona a farlo, ma spesso, quando i marocchini mi conoscevano per la prima volta, si divertivano a dirmi: “Italia?... Mafia! Brigate Rosse!” e ridevano di gusto. E così anch’io.

Verso la fine della vacanza, poiché ormai i soldi stavano finendo, i miei amici di Tangeri mi convinsero, senza troppa difficoltà, che un passo importante che potevo fare era quello di farmi circoncidere. Mi dissero che avevano deciso di fare una colletta e di portarmi da una persona che faceva questa operazione. Quando andammo da lei, ci disse che lui praticava la circoncisione sui bambini e che non si sentiva di farla su un ragazzo grande. Allora i miei amici mi portarono in un posto dove c’era, come dicevano loro, un ospedale italiano. Per la verità mi sembrava più una piccola clinica o, forse meglio, una specie di ambulatorio. Comunque c’era un medico italiano, con cui rimasi da solo. Lui mi disse che forse era meglio che ci pensassi. E mi disse che poi avrei dovuto fare il viaggio di ritorno con una medicazione. Insomma alla fine, mi convinse ad aspettare, eventualmente, a sottopormi a questa operazione a Milano. Cosa che poi non feci.

Ormai erano arrivati gli ultimi giorni. Mi erano rimasti giusto i soldi che pensavo che bastavano per arrivare fino a Milano. Mi sembra che i miei amici marocchini mi regalarono qualche soldo, ma non era tanto. Così ripartii, ma il viaggio si rivelò essere più lungo di quello che mi sembrava di ricordare. Già nella tratta fra Algeciras e Madrid mi ritrovai che non avevo niente da mangiare. A un certo punto il treno si fermò in mezzo alla campagna. Ci dissero che le rotaie erano bollenti e che, essendosi dilatate, non ci permettevano di avanzare. Cominciai ad avere fame e provai a mangiare dei rametti con dei semi sopra. Poi, quando ripartimmo, mi feci coraggio, e andai in un vagone dove avevo visto che c’erano degli scout e loro mi regalarono una pagnotta.

Arrivato a Madrid, dovevo passare la notte da qualche parte. Decisi per stare vicino alla stazione. Non c’era nessuno ma dopo un po’ mi si avvicinò un ragazzo grande, il quale mi disse che conosceva un posto dove si poteva andare e che era sicuro. Mi incamminai con lui ma dopo qualche minuto mi resi conto che probabilmente aveva intenzione di appartarsi con me e così, con una scusa, tornai indietro all’ingresso della stazione. Qui mi sdraiai sotto il portico principale. Già all’andata avevo visto dei poliziotti che facevano le ronde nelle stazioni e che avevano dei grossi manganelli. Avevo pensato che dovevano essere più brutali di quelli italiani. Ma in quel momento, mi ritrovai a sperare che passasse la polizia e che mi portasse in un commissariato dove mi avrebbero dato da mangiare.

Il giorno dopo chiesi a una signora se poteva darmi qualche moneta e lei me le diede, cosicché riuscii a mangiare qualcosa. A Barcellona si ripetè la stessa situazione di Madrid. Ma qui trovai un bar che aveva appena chiuso e che aveva messo fuori dei sacchi. In uno c’erano dei panini svuotati dal loro contenuto. In quel momento c’era lì anche un barbone e ci contendemmo i panini. Per fortuna ce n’era per tutti e due.

Quando arrivai a Milano, la prima cosa che feci fu andare da mio padre all’agenzia della banca in via Ripamonti. Non dissi niente della fame che avevo sofferto durante i tre o quattro giorni di viaggio dal Marocco a casa. Lui mi portò a mangiare in una tavola calda che si trovava lì vicino, e dove lui andava sempre a pranzare. Il resto della famiglia era in campeggio a Ballabio. Non riuscii neanche a finire il primo piatto, perché lo stomaco si era chiuso.

Il giorno dopo salii anch’io a Ballabio. Non ricordo se me l’aveva già detto mio padre, o se me lo disse mia madre in campeggio, fatto che ritengo più probabile. In pratica era successo che, pochi giorni dopo la mia partenza, un camion che trasportava carburante si era rovesciato appena fuori da un campeggio a Barcellona. Il liquido aveva preso fuoco ed erano morte delle persone. C’erano ancora dei dispersi. Mia madre, in quei giorni, era andata tutti i giorni al consolato spagnolo per sapere se erano state identificate tutte le vittime e sincerarsi che io non fossi fra loro. Questa era l’epoca in cui non c’erano i telefonini e i ragazzi, quando viaggiavano, non pensavano di dover telefonare tutti i giorni a casa. Poi, un giorno, arrivò la mia cartolina dal Marocco e, insieme alla sorpresa per dove ero andato a finire, mia madre provò sollievo per sapere che ero vivo. Mia madre mi disse anche che, pochi giorni dopo che ero partito, mi aveva cercato al telefono un mio amico per chiedermi se volevo andare in vacanza con lui. Era il ragazzo del Donatelli che avevo conosciuto pochi mesi prima e che voleva propormi di andare con lui ad Amsterdam. Mi fece piacere sapere che qualcuno avrebbe voluto passare le ferie con lui.

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


Autobiografia giovanile - Cap. 36 - Londra, Cpv e Mls

Riccardo Cervelli 17 anni 17yo
Io a Londra fra la fine del 1977 e l'inizio del 1978

L’inizio del 1978 lo festeggiai in piazza Londra con mio fratello e un altro amico. Eravamo arrivati in questa città in treno da Milano qualche giorno prima. Avevamo preso una stanza in un ostello, dove di tanto in tanto veniva alloggiata un’altra persona e poi passavamo le giornate girando per la città con la metropolitana per vedere le attrazioni più importanti o località che ci incuriosivano. Come libro da leggere durante quel viaggio avevo scelto la raccolta di poesie I fiori del male di Charles Baudelaire. Dopo capodanno, io avevo proposto di andare a trovare senza preavviso il signor Goodman, il signore inglese insegnante di ginnastica che io e la mia famiglia avevamo conosciuto nell’estate 1974 in Cecoslovacchia. Dato che dopo che ci eravamo lasciati in Cecoslovacchia, per molto tempo il signor Goodman ci inviava delle lettere contenenti delle musicassette su cui ci parlava registrando la sua voce, io disponevo del suo indirizzo. Così un giorno partimmo da una stazione secondaria di Londra in direzione Ipswich. Da lì, con un taxi, raggiungemmo l’abitazione del signor Goodman e gli facemmo un’improvvisata. Dal suo volto si capì la forte sorpresa di vederci. Oggi non mi ricordo più se ci riconobbe subito o se dovemmo dirgli chi eravamo. Comunque ci fece entrare, la sera ci preparò una cenetta, chiacchierammo per un po’ e quindi ci fece dormire nel suo salotto. Il giorno dopo ci riaccompagnò a Ipswich per riprendere il treno per Londra. Dopo di allora credo che non lo sentimmo più. Forse era già da qualche anno che non ci scriveva e che i rapporti si erano allentato. Tuttavia rimasi soddisfatto di questa esperienza, anche se non sono stato in grado di capire fino in fondo se avevamo compiuto un’azione troppo azzardata, a presentarci senza preavviso, oppure, era andata bene così.

Riccardo Cervelli 17 anni 17yo
Io nell'ostello di Londra con la raccolta di poesie I fiori del male di Charles Baudelaire

Rientrati a Milano, riprese la vita di prima, con le mattine trascorse nelle rispettive scuole e i pomeriggi alla casa occupata di piazza dell’Assunta; o più propriamente nei locali del Cpv. In quel periodo alla casa occupata erano venuti anche dei giovani del Vigentino, di qualche anno più grandi di noi, che facevano parte di qualche gruppo che faceva riferimento a Democrazia Proletaria (Dp). Avevano deciso di creare lì una loro sezione e vennero a parlare con noi per chiederci che cosa facevamo e per raccomandarci di comportarci bene in maniera da non creare problemi fra la casa occupata (che diventava anche la loro sede) e il quartiere. Noi li tranquillizzammo a questo proposito ma scegliemmo di non partecipare alla loro attività, che però poi durò pochissimo. Anzi, fra di noi li prendevamo in giro per il loro atteggiamento di militanti seri e impegnati. 

Poi, non ricordo più in quale ordine, arrivarono anche dei fricchettoni che avevano lasciato la casa occupata di via Broletto e dei militanti del Movimento Lavoratori per il Socialismo (Mls) nessuno dei quali - a differenza dei compagni di Dp - abitava nel nostro quartiere. I fricchettoni bussarono alla nostra porta un pomeriggio o una sera e ci chiesero se ci fossero dei locali liberi nella palazzina e se potevano trasferirsi lì. Noi del Cpv - o meglio io e i miei amici, perché eravamo più una compagnia che un’organizzazione politica, anche se Cpv era ormai diventato il nome del nostro gruppo - li accogliemmo con piacere, anche perché vedevamo in loro, sebbene fossero tutti un po’ più grandi di noi e non abitavano più da tempo con le rispettive famiglie, delle persone con i nostri stessi interessi e obiettivi. Quelli del Mls si presentarono anche loro un giorno da noi. Erano molti. Il loro “segretario” era una persona molto più grande di noi, molto preparata e cortese. Una sera ci invitarono nei locali che si erano presi, al piano terreno, in quella che qualche anno prima era la sede del Circolo Giovanile Vigentino, per fare una riunione insieme. Ci spiegarono qualcosa dei loro progetti. A un certo punto, uno di loro, un ragazzo un po’ tarchiato, propose di votare una “mozione”. Subito, fra di noi, lo soprannominammo Mozione. In realtà, nelle settimane successive, si rivelò essere uno dei più simpatici e disponibili nei nostri confronti. Il segretario allora non avevamo ancora capito chi fosse, ma era già un professore universitario, figlio di una persona molto importante in quell’epoca, ma quello che ci importava - o meglio importava me, visto che io ero stato individuato un po’ come il responsabile del nostro gruppo - era una persona con cui si poteva parlare in modo sereno. Altre due o tre persone, che potevano essere più o meno della stessa età del segretario, ci sembravano invece indisponenti. Ad ogni modo, la loro presenza nella casa occupata si limitava solo ad alcune serate o sabati pomeriggio, e dopo un po’ loro e noi ci ignorammo vicendevolmente. Un’altra cosa che non sapevamo, invece, era che quelli del Mls non tolleravano molto il fatto che nella casa occupata, e per la precisione occupando tutto il terzo piano (se non ricordo male noi li chiamavamo “quelli del terzo piano”), ci fossero dei fricchettoni, degli hippie, dei drogati. 

Riccardo Cervelli 18 anni 18yo
Io, con il cappellino bianco, con alcuni amici nei locali del Cpv nella casa occupata di piazza Assunta a Milano 

Per qualche mese noi del Cpv stemmo tutti bene insieme, sia i quattro amici originari della fine 1976 e prima metà del 1977, sia gli altri che si erano aggiunti. Ci ritrovavamo a divertirci tutti i pomeriggi e spesso anche di sera. Un giorno si presentarono da noi dei vigili urbani (oggi si chiamano polizia locale) che erano stati chiamati da alcune persone che abitavano vicino alla piazza e che si erano stancati di sentire provenire musica ad alto volume dalla nostra sede. Ci riportarono le lamentele, ci raccomandarono di abbassare la musica e poi se ne andarono. 

Credo che già in quel periodo mio padre fosse diventato direttore dell'agenzia della Banca Commerciale Italiana numero 38 di via Ripamonti, a poche centinaia di metri dalla casa occupata, e che aveva conosciuto uno dei capi dei vigili. Così si accordò con questo vigile e con me affinché il primo venisse un pomeriggio nella nostra sede e raccogliesse una serie di informazioni da tenere al comando. Quando venne c’ero io e non ricordo più quali degli altri del Cpv. Lo facemmo accomodare, lui tirò fuori un blocco, ci fece diverse domande in tono molto gentile, prese alcune note e poi se ne andò via tranquillo. Io restai soddisfatto perché, dopo quel colloquio, avevo capito che la nostra presenza alla casa occupata era diventata ufficiale e che dovevamo solo comportarci bene. 

Questo diventava un po’ più difficile quando al sabato sera si raggiungeva l’acme della nostra creatività e, con l’aggiunta di altri amici in visita da altri quartieri o della nostra zona, diventavamo moltissimi. Un sabato pomeriggio, la mia amica dell’Einstein che l’anno prima era scappata di casa per venire a stare qualche giorno in montagna con me e altri due amici, mi truccò da donna. Io allora ebbi l’idea di entrare così dentro l’oratorio, che ricordo si trovava di fronte alla casa occupata, e di sedermi a un tavolino, dove rimasi per qualche decina di minuti chiacchierando con qualcuno. Poi, me ne andai. Non ricordo più se fu quella volta o un’altra che l’amico dell’oratorio di otto anni più grande di me, quello che mi aveva insegnato a suonare la chitarra, mi disse: “Secondo me tu dovresti ritornare nella Comunità”. Ripensando, negli anni successivi, a questo invito, qualche volta mi sono chiesto se non avessi fatto bene a raccoglierlo. 

In quel periodo aveva cominciato a venire al Cpv anche la mia ex fidanzatina dell’oratorio, che si era messa con uno dei miei amici più stretti del nostro gruppo.

Credo che fu intorno al periodo delle vacanze di Carnevale che il nostro amico la cui famiglia aveva la famosa casa in montagna, ci disse che potevano andare su tutti. Così un giorno partimmo in treno e andammo su. Qualche giorno dopo ci raggiunse anche il mio migliore amico di una vita, che andai con alcuni altri a prendere alla stazione. Mi ricordo che c’era la neve per terra. Il treno arrivò e poi ripartì. Del mio amico nessuna traccia. Poi guardai per terra e vidi delle impronte di scarpe a punta sulla neve. Le seguimmo e trovammo l’amico che, dopo essere sceso dal treno, si era diretto in un punto sbagliato della stazione, in direzione opposta all’uscita. Ci mettemmo a ridere per questo e per il fatto che, a differenza di noi, vestiti in modo sportivo e un po’ fricchettone, lui indossava delle scarpe a punta e un costo giaccone di pelle. Poi uscimmo dalla stazione e riprendemmo la strada per salire alla casa: un tragitto di circa otto chilometri a piedi. Mentre ci trovavamo a metà percorso, sentimmo dei cori provenire dall’alto e poi vedemmo delle luci di pile: erano gli altri amici che erano rimasti nella casa e che avevano poi deciso di venirci incontro. Quando ci incontrammo fu un momento molto bello. Poi passammo qualche altro giorno su e facemmo diverse cose. Ci divertimmo moltissimo.

Al rientro a Milano, però, iniziarono a vedersi dei segni di incrinamento in alcuni rapporti. Io e i miei due amici che avevamo costituito il primo nucleo del nostro gruppo iniziammo a non essere più visti molto bene da altri. L’altro nostro amico, con cui ci frequentavamo prima della nascita del Cpv, era invece sempre benvoluto. Uno del gruppo che si era aggiunto durante l’estate 1977, in particolare, disse che io e gli altri due volevamo - o sembravamo - fare un po’ i “guru”. In realtà, cosa che si è ripetuta anche in altre occasioni della mia vita, nel rapporto tu per tu non c’erano mai problemi con nessuno: questi uscivano, attraverso alcune frasi dette e non dette, o atteggiamenti di freddezza o di allontanamento, nel rapporto fra noi tre singoli e il resto del gruppo. Dopo un po’ di tempo due dei miei amici più stretti cominciarono a non venire più. Nei confronti di uno in particolare poi provai dei sensi di colpa perché, forse per non schierarmi contro gli altri, non lo avevo difeso quando vedevo degli atteggiamenti di emarginazione nei suoi confronti. E pensai anzi che sarebbe stato molto meglio se lo avessi seguito invece di rimanere con il resto del gruppo. Forse mi sarei risparmiato diverse esperienze negative future. 

In primavera successe quello che non doveva succedere. Un sabato pomeriggio arrivai alla casa occupata e vidi un assembramento di persone in atteggiamento bellicoso davanti all’ingresso. C’era un folto gruppo di militanti del Mls, in parte della sezione che si era installata alla casa occupata, e in parte provenienti da altre zone di Milano, insieme a qualcuno dei militanti di Dp della zona. Stavano sgomberando i ragazzi che abitavano al terzo piano. Questi uscivano dal portone con le loro cose. Qualcuno che cercava di opporre resistenza veniva strattonato. Una ragazza incinta mi sembrò che venne quasi spinta per terra. Io cercai di protestare e qualcuno piuttosto grosso del Mls che non conoscevo mi si mise davanti e mi disse: “Che vuoi tu mingherlino”. Il leader del gruppetto di Dp, che abitava in zona e con cui finora avevamo pochi ma tranquilli rapporti, invece, mi disse: “Tu sei un mafioso”. Nel tardo pomeriggio io chiamai per telefono qualcuno del gruppo di Autonomia con cui non facevo più nulla, ma con cui ero rimasto in contatto, e loro vennero la sera alla casa occupata e devastarono la sede del Mls. 

Il giorno dopo o due giorni dopo, io chiamai mia zia Paola Errichelli, che sapevo lavorare al Manifesto e le raccontai dell’accaduto. Lei organizzò un incontro alla redazione del Manifesto di Milano con un giornalista di nome Mario Gamba. Presente anche mia zia, lui mi intervistò e poi scrisse un lungo articolo che, mi sembra, occupava una pagina intera o tre quarti del quotidiano, in cui si raccontava il fatto avvenuto (riportando, senza fare il mio nome, alcune mi frasi fra virgolette) e se ne forniva un’interpretazione alla luce di posizioni politiche del Mls legate allo stalinismo che non erano condivise da chi scriveva l’articolo. Non mi ricordo più da chi, ma probabilmente da un ragazzo con cui avevamo stretto amicizia negli ultimi mesi, e che lavorava per una radio privata legata al Mls, che quelli del Movimento Lavoratori per il Socialismo avevano deciso di farmela pagare. Per qualche giorno mi allontanai da Milano andando con un altro amico a fare dei lavori in un vigneto che lui e alcuni altri più grandi di me stavano sistemando nell’Oltrepo Pavese. Al ritorno decisi solo di fare attenzione a chi mi si avvicinava. 

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)

Autobiografia giovanile - Cap. 35 - Montagne e molotov

Riccardo Cervelli 17 anni 17yo
Io a 17 anni a Ballabio
 

La primavera del 1977 mi è rimasta impressa con un insieme di colori, odori, sensazioni. Bigiavo spesso. Alcuni giorni l’amico con cui stavo vedendomi più spesso in quel periodo mi accompagnava a scuola in motorino. Mi presentavo in classe o in aula studenti e poi uscivo nuovamente con lui. Molti degli episodi più piacevoli da ricordare di quell'anno riguardano le gite alla casa di vacanze in montagna di quel mio amici.

La prima volta che ci andammo, facemmo il viaggio in treno. Giungemmo alla stazione più vicina al paese dove eravamo diretti che era già sera. Quindi percorremmo circa otto chilometri di salita a piedi. L'aria era tiepida ed era molto buio. Intorno a noi volava migliaia di lucciole. Sembrava di avanzare immersi in un acquario pieno di luci che diventavano sempre più piccole e meno luminose più erano distanti. Arrivati in casa accendemmo il fuoco nel caminetto in una piccola stanza accanto al soggiorno. Ci sdraiammo nella stanzetta e rimanemmo lì ad ascoltare della musica e a parlare. In particolare ricordo di aver provato molto piacere, quella sera, ad ascoltare, da una musicassetta registrata, l’album Wish You Were Here dei Pink Floyd. In quel periodo, sia io che i miei amici, ascoltavamo molto, oltre i Pink Floyd, anche i Gong, i Tangerine Dream e Battiato. 

Un'altra gita che io e questo mio amico facemmo fino alla sua casa in montagna fu particolarmente memorabile. Era sempre primavera. Mio nonno paterno Nevio mi aveva regalato un motorino Chiorda a tre marce che era stato di mio zio Alfredo. Mio zio non voleva più usarlo perché un giorno, mentre era ci stava viaggiando sopra, ero stato investito da un'auto, era caduto e aveva battuto la testa. Quindi era stato ricoverato per qualche giorno in ospedale in stato confusionale. Una mattina io con il mio Chiorda e il mio amico con un ciclomotore Garelli a tre marce, uscimmo da Milano lungo il viale Certosa e prendemmo la statale del Sempione. Lungo la strada ci divertivamo a sorpassarci a vicenda. Io sostenevo che il mio Chiorda andasse circa cinque chilometri più veloce del suo Garelli. Un giorno, con le moto, andammo a visitare Lugano, che non era molto distante. Forse fu sempre in occasione di quella breve vacanza che ci raggiunsero la madre e la sorella del mio amico, insieme a un’amica single della madre. Ricordo che una sera dopo cena, mi offrii di lavare i piatti e che mentre lo facevo la mamma del mio amico disse alla sua amica che io sembravo una ragazzo molto “casalingo”. Presi la frase come un complimento che mi è sempre rimasto impresso. 

Un’altra volta, ma utilizzando il treno, andammo in quella casa del mio amico in montagna io quattro: io, lui, un altro nostro amico, e una mia ex compagna del liceo Einstein che aveva la mia età. Dopo il mio trasferimento dall’Einstein al Donatelli io continuavo a frequentare i miei ex compagni impegnati politicamente, la maggior parte dei quali li avevo coinvolti nello sforzo di mantenere in vita il Collettivo Autonomo Einstein (Cae). Fra questi c’era quella ragazza che, per venire con noi, era scappata di casa. La prima notte che siamo stati su stava per accadere qualcosa fra me e lei, ma mentre eravamo vicini a realizzare quello che aspettavo da tempo di fare con qualche ragazza, ci accorgemmo che uno degli altri due nostri amici era seduto a pochi metri da noi. Poco dopo che lo salutammo, lui se ne andò in un’altra stanza, ma la nostra amica non era più convinta di avere un rapporto e quindi siamo solo rimasti sdraiati sul letto a parlare. Il giorno dopo sentimmo bussare alla porta. Allora non c’erano i telefoni cellulari. La mamma di quella ragazza, che sapeva che noi ci frequentavamo (almeno una volta avevamo tenuto una riunione del Cae a casa loro, mentre altre volte i componenti del Collettivo li invitavo io a venire alla casa occupata di Piazza dell’Assunta) era riuscita a trovare il numero di mia madre e l’aveva chiamata. Quindi mia madre aveva telefonato alla madre del mio amico, che aveva chiamato il proprietario di un bar del paese vicino alla casa di montagna. Quando aprimmo la porta, dopo questo aveva bussato, ci chiese. “C’è la signorina…”. Mi fece una certa impressione quel “signorina” per una ragazza di 16 anni (credo non avesse ancora compiuto i 17, mentre io sì). Allora scendemmo tutti al paese e la nostra amica chiamo la madre, che la invitò a tornare a casa. Decidemmo tutti di tornare con lei a Milano. 

In quel periodo, avevo iniziato a fare nuovi tipi di letture, alcune delle quali suggerite da amici conosciuti alla casa occupata e che non facevano politica attiva ma rientravano nel novero di quelli che avevano già da anni intrapreso uno stile di vita più controcorrente. Quanto avvenne quella gita con la nostra amica nella casa in montagna, avevo iniziato a leggere, o avevo da poco finito, A scuola dallo stregone, di Carlos Castaneda. Lo avevo voluto comprare in inglese in una edizione tascabile Penguin Books che ancora conservo gelosamente. Continuavo, forse già dall’anno precedente, a leggere anche libri che parlavano di psicologia infantile. Avevo iniziato a leggere dei classici, come le opere di Jean Piaget, ma mi erano piaciuti anche due libri usciti negli anni precedenti: Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti, Il pesce bambino, di Michele Zappella, e Se tuo figlio ti domanda, di Annie Reich. Non specificamente incentrati sulla psicologia infantile, sempre in quel periodo (anno più o meno) ho apprezzato molto anche: Tre saggi sulla teoria sessuale di Sigmund Freud, La rivoluzione sessuale di Wilhelm Reich, e L’arte di amare di Erich Fromm. 

Intanto, non avevo smesso di frequentare, di tanto in tanto, il Circolo Romana-Vigentina. Non andavo proprio d’accordo con tutti i membri del gruppo. Con il mio amico che me lo aveva fatto conoscere e con quello che era il leader de facto mi trovavo molto bene, con altri non c’era molta sintonia. Questo dipendeva, l’ho capito più tardi, anche da me, poiché a volte tendevo a fare il saputello. Anche lì ogni tanto invitavo a venire degli amici dell’Einstein, fra cui una ragazza che aveva la stessa età della mia ex fidanzatina dell’oratorio e che, come questa, faceva la prima liceo in quella scuola. Uno dei motivi per cui frequentavo il Circolo Romana-Vigentina è che avevo iniziato a rifare l’impianto elettrico che collegava gli impianti impianti dei singoli appartamenti al contatore centrale, con cui ci collegammo. Fra questo e i cavi che portavano la corrente ai diversi piani, mettemmo un interruttore generale che comprai in un negozio di materiale elettrico ed elettrodomestici che si trovava lì vicino e che apparteneva a un vicino di casa del mio condominio, la cui famiglia era molto amica della mia. Ho saputo solo in anni recenti, circa quarant’anni dopo, che questo vicino disse ai miei che mi aveva visto frequentare un posto poco raccomandabile e che i miei, non solo ci dettero importanza a quello che avevano sentito, ma che più o meno gli devono avere detto che erano fatti miei, o nostri. Forse allora quel vicino e la moglie rimasero un po’ offesi. 

Fra le ultime attività che svolsi insieme ai compagni del Circolo ci fu la partecipazione alla manifestazione del 14 maggio a Milano in cui rimase ucciso l’agente Antonio Custra. Ricordo che il corteo principale era giunto, per concludere la manifestazione, in piazza del Duomo. Il nostro gruppo fece in tempo ad arrivare lì quando venimmo a sapere che c’era stato uno scontro fra autonomi e polizia e che un poliziotto era stato ammazzato. Ricordo che mentre eravamo già entrati nella piazza, un grosso gruppo di manifestanti - che potevano essere di Avanguardia Operaia (Ao) o del Movimento Lavoratori per il Socialismo (Mls) - al ricevimento della notizia si compattò e tutti i suoi componenti alzarono le braccia brandendo delle grosse chiavi inglesi che luccicarono alla luce del sole. Noi - o meglio i nostri più esperti - capimmo che era iniziata una “caccia all’autonomo” e ci allontanammo dalla piazza. Ricordo che il nostro gruppetto passò, a un certo momento, per via Festa del Perdono e che vidi, da un locale, uscire scortato un ragazzo molto più grande di me con la faccia insanguinata. Pensai subito che dovesse essere un autonomo. 

Ma oltre alla casa occupata di piazza dell’Assunta, che ormai era diventata la mia (nostra) base, e alla casa occupata di Corso Lodi 6 (dove c’era il Circolo Giovanile Romana-Vigentina), in quel periodo capitava anche che, soprattutto insieme ad un altro dei miei amici dalla fine del 1976, andassi anche alla casa occupata di Corso Lodi 95. Qui io e quel mio amico andavamo a trovare delle altre persone, almeno una delle quali era impegnata in una radio privata di sinistra, Canale 96. Il mio amico, in quel periodo, andava spesso in quella radio a condurre le trasmissioni per qualche ora. Anch’io andai due o tre volte con lui. Ricordo che una sera proposi di fare una trasmissione del tipo “microfono aperto” con gli ascoltatori sul tema “Misticismo e psichedelia”. Io svolsi la maggior parte del ruolo di conduttore, mentre il mio amico presentava e faceva ascolta brani musicali. Non rammento esattamente cosa ci fosse nella selezione, ma in quel periodo ascoltavamo, come ho già scritto, soprattutto rock progressivo, musica elettronica, musica cosmica e free jazz. Per la verità, quella sera, mi sembra che chiamò solo un professore di filosofia, con cui ci tenemmo compagnia telefonicamente a lungo.

A luglio raggiunsi i miei nel campeggio di Ballabio, in Valsassina, dove, dall’anno precedente,  tenevamo la roulotte. Un po’ di giorni più tardi, insieme a mio fratello, ci recammo a Onno, un paese sul lago di Como, non lontano da Lecco, dove io volevo trovare uno dei miei amici con cui mi frequentavo da un po’ di mesi, e mio fratello un nostro amico di infanzia, suo coetaneo. Entrambi questi nostri amici si conoscevano, come tutti noi, da quando eravamo piccoli e quindi facemmo qualche giro tutti e quattro insieme, compresa una bella gita in mezzo al lago su una barchetta a remi. Da dopo quell’esperienza, al ritorno a Milano, formammo un’unica comitiva con i miei amici e quelli di mio fratello. Ma, ripeto, prima non ci frequentavamo, ma ci conoscevamo tutti almeno dai tempi delle elementari e dei giri da bambini in quartiere.

Fu forse quell'estate a Ballabio che conobbi la maggior parte delle ragazze e dei ragazzi che poi ritrovai anche negli anni successivi e con cui stringemmo forti rapporti di amicizia. Con due sorelle continuiamo a frequentarci e una, una quindicina di anni più tardi, diventerà la moglie del mio migliore amico. Il gruppo che costruimmo nel campeggio nell’estate 1977 era molto eterogeneo per età. Io e la mia coetanea che frequentava l’istituto per il Turismo a Cimiano (vicino al Molinari) eravamo i più grandi. Poi c’erano molti ragazzi e ragazze di uno, due, tre, quattro anni più giovani di me. Quasi sempre stavano con noi anche bambini e bambine che erano fratelli o sorelle dei miei amici e delle mie amiche più vicine a me come età. Quando ci trovavamo nello spazio destinato ai giovani del campeggio io suonavo spesso la chitarra. Diverso tempo lo trascorrevamo anche giocando a ping pong o chiacchierando. A un certo punto, con la scusa che ogni tanto andava mossa, iniziai ad accendere la nostra macchina e a portarla fuori dal campeggio su per una stradina. Ogni volta, dato che era sempre la stessa Opel Kadett famigliare, la macchina si riempiva di amici di ogni età. Credo che sia successo sempre quell’anno che, un pomeriggio, andammo qualche ora a casa di una ragazza che non soggiornava nel campeggio. L’appartamento in affitto si trovava comunque vicino. Mentre eravamo a casa sua, io e lei iniziammo a parlare sempre di più da soli e forse ci mettemmo anche vicini su un letto. Sinceramente non ero molto attratto da lei, sebbene fosse una bella ragazza. Il giorno dopo mi disse che, quando eravamo a casa sua, lei avrebbe voluto fare sesso con me. Io le dissi che non me n’ero reso conto e le chiesi se fosse ancora interessata. La risposta fu negativa. Quando lo dissi a un altro ragazzo, che veniva nel campeggio ma soggiornava  anche lui in una casa esterna, credo che mi rispose che o ci avrebbe provato lui o che lei gli aveva proposto la stessa cosa. Non so se era avvenuto o se sarà avvenuto qualcosa fra loro successivamente. Personalmente era attratto da altre tre ragazzine che però erano troppo più giovani perché io ci potessi seriamente provare, ma della cui sola compagnia mi sentivo appagato. 

Al rientro dalle vacanze ripresi il mio tran tran precedente, fra casa occupata di piazza dell’Assunta al Vigentino, i miei amici con cui mi ero unito verso la fine del 1976 e il Circolo Giovanile Romana-Vigentina, con cui i rapporti stavano diventando sempre più radi. Alcuni di loro, peraltro, stavano proprio in quell’epoca pensando di provare a fumare delle canne e ci rimasero quando videro me e qualcun altro dei miei amici, in visita lì, che andavamo nello scantinato a farcene una. Credo che allora noi li invitammo. Ma con quei ragazzi in particolare non avevo ma legato, o almeno non mi sentivo benvoluto. Uno, soprattutto, mi sembrava che ce l’avesse sempre avuta un po’ con me. Non so quando me lo disse, e se me lo disse lui, ma in passato frequentava l’oratorio di Sant’Andrea e conosceva qualcuno - e una ragazza a cui continuavo a tenere particolarmente, anche se non la vedevo più - che conoscevo anch’io. 

Comunque, fu con questi amici del Circolo che la sera del 13 settembre mi recai al velodromo Vigorelli dove era in programma un concerto di Carlos Santana. Non ricordo se avevo solo saputo che loro volevano andarci o se dovevamo andarci perché era stato organizzato qualcosa a cui noi (mi consideravo ancora parte del Circolo) dovevamo partecipare. Fatto sta che entrammo nel velodromo con i gruppi di Autonomia e dei circoli che sfondarono i cancelli e quindi non pagammo. Dopo poco tempo che era iniziato il concerto, mentre le luci sul palco erano soffuse, notai una piccola luce arancione volare da un punto a sinistra del pubblico (guardando il palco) e finire sul palco vicino ad alcuni amplificatori. Quindi ci fu una fiammata e tutte le luci del velodromo si accesero. Quella che avevo visto volare era la miccia di una bottiglia molotov. Intanto da alcune parti del pubblico si sentiva gridare lo slogan “Via, via i servi della Cia!”, con chiaro riferimento a Santana. Io, per la verità non avevo mai pensato a un collegamento fra i grande musicista e i servizi segreti americani, e inoltre ero già soddisfatto per essere entrato gratis al concerto. Dal 1976 in avanti, avevo già partecipato ad altri “sfondamenti” in occasione di concerti all’insegna della cosiddetta “autoriduzione”, promossa soprattutto dai circoli giovanili e da Autonomia, e quindi probabilmente pensavo che il nostro obiettivo era già stato raggiunto entrando senza pagare al concerto. Tuttavia, mentre stavamo uscendo dalla struttura, perché ormai il concerto era stato annullato e stava anche per arrivare la polizia, mi ritrovai con gli altri a svuotare velocemente delle bottiglie molotov in alcuni bagni che avevamo trovato lungo la strada per l’uscita. Non so se avevo saputo che anche noi ci eravamo portati dietro delle molotov.

Sempre in quel periodo iniziai la quarta liceo scientifico, dopo essere stato promosso a un esame di riparazione in educazione fisica a cui mi ero condannato non andando praticamente mai alle lezioni. Sulla pagella, nella colonna del secondo quadrimestre, accanto al nome di questa materia campeggiava una sigla: N.C. Non classificato. Per la quarta cambiammo aula, ma la realtà fu che la frequentavo pochissimo, mentre preferivo passare la maggior parte delle ore in aula studenti. 


Collettivo Politico Vigentino
La scritta Collettivo Politico Vigentino sopra l'ingresso dei nostri locali

Alla casa occupata di piazza Assunta, invece, dato che, come ho già accennato, il piccolo nucleo di amici con cui mi ero unito al alla fine del 1976 si era ampliato con l’aggiunta della compagnia che frequentava mio fratello, proposi di chiamare il nostro nuovo gruppo più allargato Collettivo Politico Vigentino (Cpv). Credo che l’idea venne accettata non tanto per convinzione politica di tutti quanto perché il fatto di darci un nome soddisfaceva forse il bisogno psicologico di identificarci in maniera originale e perché io, essendo il più grande del gruppo, avevo un certo potere di persuasione. 

Tra gli episodi di quel primo periodo del Cpv mi ricordo questo. Durante una delle nostre passeggiate per il quartiere, avevamo scritto in diversi punti della via Val di Sole con un gessetto "vieni al Cpv", con vicino una freccia indicante la direzione della casa occupata. Un pomeriggio, mentre ci trovavamo nei nostri locali, vedemmo entrare una ragazza, sorella di uno dei miei primi storici amici d’infanzia. Ovviamente la conoscevo e avevamo giocato insieme perché aveva solo due anni meno di me. Non credetti alle mie orecchie quando ci disse: "Ho seguito le frecce e sono arrivata qui". Noi eravamo tutti maschietti e una femmina era una rarità. Per un certo periodo questa ragazza venne al Cpv accompagnata dalla sorella più piccola di un anno. Parlando con noi, la maggiore chiamava la sorella “il testimone”. Non ricordo più per quale motivo. Forse voleva dire che la sorella minore avrebbe potuto testimoniare davanti ai suoi che alla casa occupata non succedeva nulla di male. In effetti questa non disse quasi mai una parola per tutto il tempo che accompagnò la sorella. Poi continuò a venire solo questa e lei non vedemmo più. 

Alla ripresa della scuola, infransi la promessa fatta ai miei di non farmi più vedere nelle vicinanze del liceo Einstein. In occasione di qualche mobilitazione portai i membri del Cpv - che come me andavano tutti in scuole che aderivano in massa agli scioperi - a fare picchetto alle entrate della mia vecchia scuola. 

Anche in quel periodo iniziale del Cpv, il mio vecchio nucleo di amici continuò a vivere qualche esperienza separatamente dagli altri. Uno dei temi che ci univa in modo esclusivo era l’interesse per il free jazz. Ad essere sinceri erano soprattutto due dei quattro componenti del nostro gruppo che lo amavano e lo conoscevano. A me stava bene un po’ perché certi artisti e opere mi piacevano, un po’ per curiosità intellettuale. Ad esempio, ricordo che un giorno io e altri due andammo a casa di altri studenti dell’Einstein a provare una specie di performance. Uno iniziava a leggere delle pagine di un libro. Qualche secondo dopo iniziava un altro, e così via. Dopo qualche minuto nella camera dove ci trovavamo si sentivano più voci leggere cose diverse. Ogni tanto ognuno doveva iniziare a cambiare il tono di voce, l’espressione, la velocità di lettura. Intanto il tutto veniva registrato. Non so che fine ha fatto quella registrazione e se sia mai stata ascoltata e valutata da qualcuno oltre noi. 

Sempre noi del gruppo iniziale meno uno decidemmo di andare ad assistere, la sera del 2 dicembre 1977, a un concerto di John Cage al teatro Lirico di Milano. L’evento è tutt’oggi molto ben ricordato da chi c’era, fra cui anche molti nostri amici più grandi noi di qualche anno, che erano andati al teatro per conto loro. Prima che John Cage salisse sul palco, sopra di questo non notammo alcuno strumento musicale. Sulla destra, dal punto di vista di chi guardava, c’erano solo un tavolino, una sedia, una lampada e un microfono. Quando Cage entrò in sala, andò a sedersi a quel tavolo e iniziò a leggere da un libro. Tutti aspettammo per alcuni minuti che finisse di leggere e che iniziasse qualche altra esibizione. Invece continuò imperterrito. A un certo punto una buona parte del pubblico iniziò a rumoreggiare e a gridare fra di protesta. Qualcuno decise di salire sul palco. Ci fu chi spegneva la luce sul tavolino, che poi Cage riaccendeva, e poi chi (uno, l’ho saputo di recente, era uno dei nostri amici più grandi, che non era seduto vicino a noi tre), gettò dell’acqua contro l’artista. Ricordo che a un certo punto qualcuno, salito anche lui sul palco e preso un microfono, disse che dovevamo smettere di tormentare John Cage perché così facevamo solo “il suo gioco”. Poi non ricordo più come finì lo spettacolo. Credo che certamente lo fece prima del previsto con Cage che uscì di scena e non tornò più.

Qualche giorno più tardi, il 7 dicembre, era in programma come tutti gli anni nel giorno di Sant’Ambrogio (patrono di Milano) la prima della Scala. Io sapevo che tutti i gruppi politici di estrema sinistra, compresa l’Autonomia, sarebbero scesi in piazza a protestare contro questo evento simbolo della borghesia, poiché ci potevano partecipare solo i ricchi. Non ricordo più se perché non ero interessato ad andare alla manifestazione anch’io, se non avevo il coraggio di chiedere (in casi particolari mi sentivo ancora in dovere chiedere il permesso di uscire, visto che ero ancora minorenne) ai miei di andare, oppure perché ormai avevo smesso praticamente di frequentare gruppi organizzati. Fatto sta che non andai al corteo. Quella sera ci furono scontri durissimi con la polizia e diverse persone - forse anche qualcuno che avevo conosciuto - si ustionarono lanciando bottiglie molotov. 

Personalmente non mi dispiacque di non essere stato presente. Inoltre avevo iniziato a programmare un viaggio a Londra, a cavallo di Capodanno, con mio fratello e uno dei miei amici carissimi di quel momento. Il viaggio doveva avvenire in treno fino a Calais, poi in traghetto, e poi ancora in treno fino a Londra Victoria Station. Per la prima volta comprai dei biglietti internazionali all’agenzia Transalpino, nostro padre acquistò dei travel cheque da darci per poi farli cambiare a Londra, e mi informai un po’ su dove potevamo trovare un ostello e che tipo di abbonamento ai mezzi pubblici ci conveniva di più comprare una volta giunti sul luogo.

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)

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