Autobiografia giovanile - Cap. 19 - Preadolescenza, affettività e scuola

 Il 9 giugno 1971 (fonte: Tecnica della scuola.it) è finito l’anno scolastico 1970-1971. Per me dev’essersi concluso qualche giorno più tardi, perché dovevo affrontare l’esame di stato della quinta elementare, necessario per poter accedere alle scuole medie. Avevo 11 anni e mezzo. Essendo nato agli inizi di gennaio, sono sempre stato fra i più grandi delle classi che ho frequentato.

Le vacanze estive successive prevedevano ancora qualche settimana di campeggio a Cogne, Valle d’Aosta. Ancora quell’anno non avevamo l’auto e quindi dobbiamo aver affrontato lo stesso tipo di viaggio da Milano a Cogne e ritorno con l’utilizzo di pullman fino ad Aosta e poi taxi fino alla destinazione. E come sempre, qualche settimana prima della partenza, mia madre ha confezionato i colli da spedire al luogo di vacanza tramite corriere, parola che ho imparato in quelle occasioni. La tenda, spedita anch’essa per corriere, era quella a casetta blu, con delle “stanze” separate per i miei genitori, che dormivano con le mie sorelle, e una per me e mio fratello.

Quell’estate nella palazzina dove vivevano i proprietari del campeggio, e dove al piano inferiore c’era la direzione e una, era venuta a vivere, in un piccolo appartamento, una famiglia. Tra i figli c’era un ragazzo della mia età, o forse un anno di più. Presto feci amicizia con lui. Trascorrevamo molto tempo insieme e una volta ricordo che siamo andati da soli a piedi fino al paese prima di Cogne, Cretaz. Al ritorno, per fare prima, facemmo l’autostop. Nei confronti di questo bambino ho sperimentato per la prima volta un senso di colpa per un mio atto di cattiveria che mi fece vergognare di me stesso ai miei occhi. La storia è rimasta però fra noi due e quindi nessuno mi ha sgridato. Non da lui, ma da altre persone, ero venuto a sapere che nella sua famiglia una persona, in passato, aveva avuto un problema giudiziario. Al mio amico non avevo mai domandato nulla in proposito per non ferirlo. Ma un giorno che per qualche motivo, mentre ci trovavamo da soli io e lui, avevamo avuto una discussione, gli rinfacciai per offenderlo quel problema giudiziario di un suo parente. Lui si mise a piangere. Non ricordo come io reagii a questo, ma penso che poi mi perdonò e restammo amici. Da allora quell’episodio è rimasto nella mia vita come esempio di come i bambini possono diventare cattivi anche se normalmente non lo sono. Non credo di aver ripetuto più lo stesso errore che feci quella volta con nessun’altra persona: usare qualcosa di cui non ha colpa per ferirla.

Riccardo Cervelli 11 anni
Io a Cogne nell'estate 1971

Quella vacanza a Cogne è restata, nel vero senso della parola, incisa nella mia vita anche per un altro motivo. Allora io - come poi anche in seguito - ero una persona molto curiosa e accumulatrice e che non si faceva troppi problemi a violare anche qualche regola per scoprire qualcosa di nascosto e, magari, prendermi un cimelio. Un pomeriggio, io, mio padre e, forse, mia sorella di 6 anni, siamo andati a fare una passeggiata nel cosiddetto Prato di Sant’Orso, una grande distesa erbosa che si trovava al di là della strada di fronte al campeggio. In alto, nel prato, c’era una casupola per gli attrezzi con una porta di legno chiusa con un chiavistello bloccato da un lucchetto. Con il bastone da montagna, con la parte superiore a forma di piccozza, che utilizzavo quando passeggiavamo, ho deciso di forzare quel lucchetto. Questo si ruppe ma volò verso la mia bocca, spezzandomi un incisivo centrale superiore. Subito tornammo al campeggio e mia madre, quando vide quello che era successo, si mise a piangere. Non me n’ero ancora reso conto, ma quell’incisivo era un dente definitivo, non deciduo. Quando tornammo a Milano - non subito perché comunque potevo continuare la vacanza anche così - iniziò una lunga sequenza di sedute Istituto stomatologico di via della Commenda. Ma le protesi che misi in successione da quell’anno fino a quando sono diventato adulto, non sono mai venute benissimo, tanto che ho passato diversi anni con corone che stavano in posizione solo perché c’era il perno, mentre l’adesivo si consumava sempre e dovevo stare attento perché facilmente il dente si staccava. A un certo punto mi sono abituato ad avere un dente che si toglieva e rimetteva. Un fatto che però ha, anche se molto limitatamente, nuociuto alla qualità della vita. Oltre alla paura che per un nonnulla venisse via il dente, c’era anche sempre anche l’ansia di trovarmi in imbarazzo a stare, anche se per poco, senza quel dente davanti. Allo stesso tempo, però, non mi andava di far preoccupare e mettere in qualche difficoltà i miei per risolvere in modo definitivo la situazione. Ogni tanto ne parlavo, cambiavamo dentista, ma poi il problema si ripresentava e allora me lo tenevo.

Ricordo che a Cogne, probabilmente grazie al juke-box del bar oltre che alle radioline portati, sentivo spesso una canzone di Lucio Battisti che mi piaceva molto: Pensieri e Parole. Negli anni a venire, quando la sentivo, mi ricordavo di Cogne.

Tornando al 1971, al ritorno da Cogne, verso fine agosto o i primi di settembre, abbiamo trovato, fra varie cartoline, anche una lettera a me indirizzata. Me la misi via perché non avevo intenzione di aprirla davanti ad altre persone e condividerne il contenuto. Il mittente era la mia amica del cortile più grande di me e l’aveva scritta dalle vacanze. Credo di averla aperta e letta mentre stavo per uscire, con la mia bicicletta tirata fuori dal box, dai garage sotto casa mia. Ne sono quasi certo perché ho ancora viva nella memoria la sensazione di angoscia che ho provato dopo averla letta una prima volta. In quel momento mi trovavo davanti alla rampa di uscita dal box. Sono rimaste abbinate la sensazione di groppo allo stomaco e la vista della rampa. Che cosa c’era scritto nella lettera? La mia amica mi raccontava di avermi molto pensato e di aver deciso di chiedermi se volevamo metterci insieme. Diversi pensieri si sono formati nella mia mente. Mi sembrava qualcosa di peccaminoso e per il quale non ero preparato. Non mi sentivo pronto a stringere una relazione sentimentale da ragazzi o adulti. Mi chiedevo che cosa avrebbe comportato. In più la mia amica mi piaceva per l’intesa intellettuale e affettiva che avevamo, ma non l’avevo mai pensata in altri termini. Dovevo anche essermi reso conto che il suo corpo si era già un po’ sviluppato in quello di una ragazzina, e non più una bambina, mentre io mi sentivo ancora un bambino. Però mi faceva anche piacere pensare che una ragazza desiderasse stare con me anche se ero più piccolo. Però non ricordo come andò a finire. Non ho memoria di averne discusso con lei. Può anche essere che, la prima volta che ci siamo rivisti feci finta di nulla, così come che, invece, le abbia detto che non me la sentivo di legarmi. Tutto, comunque, si risolse subito e continuammo a restare ottimi amici.

Forse ho comunque pensato al fatto che da quel momento avevamo qualcosa in più in comune: frequentare entrambi scuole successive alle elementari. Non ricordo se lei si accingesse a concludere le medie o a iniziare le prima superiore. Molto probabilmente, dati i tre anni di scarto fra noi, doveva essere vera la seconda ipotesi. Il che, forse, mi faceva sentire contemporaneamente più lusingato ma anche più perplesso per la proposta che alla mia amica doveva essere nata dal cuore e da una lunga meditazione.

Riccardo Cervelli 11 anni
Sempre io a 11 anni a Cogne

In quell'anno scolastico 1971-1972 mio fratello si accingeva a frequentare la quinta elementare e mia sorella Annarita la prima elementare. Entrambi andavano alla vicina scuola Wolf Ferrari. Per me, invece, iniziava un lungo periodo, durato praticamente fino all'università, di viaggi con i mezzi pubblici per raggiungere i miei luoghi di studio. 

In quel periodo non c’era ancora una scuola media nel quartiere Fatima. Le possibilità erano due: andare a quella situata in Via dei Fontanili, in quello che per noi era il quartiere Chiaradia, nato prima del nostro, e che si trovava nella parte Nord della zona Vigentino, più verso il centro città; oppure andare, prendendo il tram, nelle scuole che si trovano in zona Porta Romano. I miei genitori e quelli degli altri bambini della nostra compagnia scelsero questa seconda opzione. E così venimmo quasi tutti iscritti alla Scuola Media Luigi Majno - se maschi - o alla Scuola Media Arconati, se femmine. Le due scuole si trovavano entrambe in via Commenda e nello stesso complesso dove si trovava anche il liceo classico Berchet. Per raggiungere queste scuole, da Vigentino dovevamo prendere il tram 24, scendere alla Crocetta e percorrere a piedi un pezzo di via Lamarmora fino all’incrocio con via Commenda. Il viaggio da casa a scuola richiedeva circa tre quarti d’ora. Per quanto mi riguarda, poiché già utilizzavo da qualche anno il tram per andare a scherma in via Cerva, prendere da solo questo mezzo non era una novità. Oggi qualcuno potrebbe avere da ridire sul fatto che bambini di 8-10 anni viaggiassero da soli sui mezzi pubblici per percorrenze di non poco conto. Ma, al di là che in quegli anni c’era maggiore fiducia da parte dei genitori nei confronti della società, oggi penso che un motivo in più per non preoccuparsi era il fatto che, sui tram, gli autobus e i filobus, oltre a molti passeggeri adulti non c’era solo un altro adulto, ovvero il guidatore: c’era anche il bigliettaio. Questo si trovava in fondo al mezzo, dove c’era la salita, e alla fine, oltre a vendere i biglietti, poteva controllare che cosa avveniva sulla vettura ed eventualmente intervenire in caso di problemi. Ho appena letto che la figura del bigliettaio, sui mezzi Atm, è stata mandata in pensione il 3 marzo 1974, mentre io stavo finendo la terza media.

Per tornare alla scuola, per raggiungerla, una volta percorso a piedi l’equivalente di una fermata di tram 23 in via Lamarmora, arrivati all’incrocio con via Commenda si girava a destra. Poche decine di metri dopo c’era il portone della Arconati, dove entravano le ragazzine, e poi quello della Majno, dove ci infilavamo noi ragazzi. Ancora più avanti c’era l’ingresso, un po’ più imponente, del Berchet. La Majno e il Berchet erano collegati internamente da un cortile comune. Fino al 1940, anno in cui fu creata la scuola media Majno, tutto l’edificio era occupato Berchet, che comprendeva dal ginnasio fino al liceo classico.

La classe prima in cui mi trovai era, come lo erano allora tutte le classi di ogni grado, numerosa e, ovviamente, composta tutta da maschi. Poiché si trovava praticamente in centro, i miei compagni di classe provenivano in parte dalla mia zona e uno addirittura da Locate Triulzi (dopo Vigentino e anche dopo Opera) e in parte dalle zone di Porta Romana e Porta Vigentina. C’era anche un buon assortimento di classi sociali, che però si potevano notare solo guardando alcuni capi di vestiario o andando a trovare i compagni a casa dopo la scuola. In classe eravamo tutti uguali; a fare la differenza erano la voglia di studiare e il carattere. La mia classe era abbastanza indisciplinata, ma avevamo anche delle professoresse con alcuni anni di esperienza sulle spalle che si sapevano fare rispettare e seguire, soprattutto quelle di Lettere (professoressa Seletti), Matematica e Scienze (professoressa Formenti) e Inglese (professoressa Lolli). Allora non era prevista la seconda lingua, ma in compenso si studiava il latino (abolito nel 1978 in questo grado). Personalmente, le materie che mi piacevano di più - e in cui avevo anche un buon rendimento - erano italiano, latino, scienze, educazione artistica, applicazioni tecniche e musica. 

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


Autobiografia giovanile - Cap. 18 - Jeunes filles en fleur

 Autobiografia - Cap. 18 - Jeunes filles en fleurDopo il ritorno da Cogne, prima vacanza in campeggio dal 1964, nell’autunno 1970 ho iniziato la classe quinta nella nuova scuola elementare del quartiere Vigentino, cioè quella intitolata al compositore italiano Ermanno Wolf-Ferrari, situata nell’omonima via. Colgo l’occasione per segnalare che diverse vie su cui stati edificati i nuovi condomini della zona Vigentino nella seconda metà degli anni Sessanta (dando vita al quartiere Fatima), sono stati intitolati a compositori. Lo stesso vale per la strada dove abitavo (via Pick Mangiagalli) e quella più lunga subito attaccata (via Chopin).

Si è compiuto così il “tradimento” della scuola elementare di via Noto, e per me il passaggio a una terza diversa scuola elementare, dopo quella di via Scrosati (zona Lorenteggio) e via Noto (vecchio Vigentino). Del resto, per i miei genitori si è trattato di una scelta razionale, perché per arrivare da casa alla scuola Wolf Ferrari erano sufficienti cinque minuti e l’attraversamento di una sola strada. Per di più l’uscita della scuola era anche visibile dal balcone davanti del nostro appartamento.


scuole Wolf Ferrari primi anni 70
Foto scattata da mio nonno da una finestra di casa sua. In primo piano l'asilo e dietro la scuola elementare di via Wolf Ferrari. Più dietro ancora la chieda Madonna di Fatima. A sinistra la fila di case davanti condominio in cui vivevo (la via interna è via Pick Mangiagalli)

Il mio migliore amico, abitante nel mio condominio e compagno di classe in via Noto, è rimasto nella vecchia scuola a concludere il ciclo scolastico. In ogni caso ci vedevamo lo stesso tutti i pomeriggi e i week-end. Un altro nostro amico, coetaneo e condomino, che in via Noto era nella nostra stessa classe, ha cambiato anche lui e me lo sono ritrovato in classe. Per la prima volta mi sono ritrovato come compagno di classe un altro nostro amico, coetaneo e condomino che, alla scuola di via Noto, era con una maestra diversa. Un’altra novità seguita al cambiamento di scuola è che per la prima (e resterà l’unica) volta ci siamo ritrovati un maestro: il mitico maestro Rezzaghi, che già in via Noto insegnava soprattutto in classi quarte e quinte. Credo di aver provato un po’ di orgoglio, quindi, ad avere il maestro Rezzaghi, perché, dato che lo avevamo sempre visto insegnare nelle classi degli ultimi anni, essere suoi alunni mi faceva già sentire un po’ più grande. Giusto come ci si doveva sentire a meno un anno dalle scuole medie.

Nella nuova classe, quindi, ci siamo trovati rimescolati con altri bambini provenienti dalla scuola di via Noto (e forse non solo), che però stavano in classi diverse. Non è stata una novità, invece, quella di ritrovarci comunque tutti in una classe maschile. Per noi che in via Noto avevamo avuto come maestra la signora Maria Gidino, che soffriva di una claudicanza, è stata anche la prima volta (esclusa la prima elementare, per chi come me l’aveva fatta in un altro quartiere) che andavamo in palestra nell’ora di educazione fisica. A farci fare gli esercizi era sempre il maestro Rezzaghi. Ricordo ancora noi con la casacca nera che iniziavamo a scaldarci correndo in circolo lungo i muri della palestra e poi ci impegnavamo con salti del cavallo (cavallina) da ginnastica, sulle spalliere o ad arrampicarsi su funi e pertiche. Sicuramente non ero uno dei più bravi in queste cose, nonostante frequentassi i corsi di scherma in via Cerva.

Il maestro Rezzaghi non era giovanissimo; direi che poteva avere sui cinquant’anni. Mi sembra che fosse competente e stimolante nell’insegnare le materie e sapeva come essere spiritoso o severo, con ironia. Ogni tanto faceva la rivista unghie. Ognuno esponeva le mani e controllava la loro igiene. Quando lo faceva teneva in mano un piccolo righello. Una volta che mi ha trovato con le unghie sporche, mi ha detto: “E queste sarebbero le mani di un pianista?”, e poi mi ha battuto leggerissimamente le dita con il righello.

Del maestro Rezzaghi mi è rimasta impressa anche un'altra situazione. Un giorno richiamò la nostra attenzione e ci disse che a scuola era arrivata la comunicazione circa la possibilità di partecipare a un provino per accedere a una scuola di danza. Nel dircelo ci guardava con uno sguardo che dimostrava già l'attesa di un accoglienza ilare della proposta. Come infatti fu. Ricordo che ci disse: "Guardate che la danza non è una solo per le femmine". Ma non insistette a farci considerare seriamente l'opportunità di partecipare al provino. 

In quell’epoca, la compagnia dei bambini del cortile e della via Pick Mangiagalli iniziava un po’ a cambiare. In cortile non andavamo più perché ormai lo avevamo lasciato ai bambini più piccoli. Noi della terza infanzia e preadolescenza preferivamo la strada o il campetto, situato sul limitare nord del condominio e praticamente di fronte alla scuola elementare. Questo era stato anche ripianato, ripulito dalle erbacce e circondato da una rete. Lì ci giocavamo a pallone o stavamo seduti alla base della grandissima e vecchia pianta. Quando giocavamo a calcio, io stavo sempre in difesa, perché non amavo tanto questo sport, non mi ci impegnavo, ed ero quindi anche un po’ impacciato. Come ho già scritto in altri capitoli, ero più di tutto interessato di elettronica e di chimica, biologia, minerali etc. Prima della vacanza estiva in campeggio a Cogne, i miei nonni materni erano andati a passare qualche settimana ad Alassio e si erano portati dietro mia sorella Annarita, di 5 anni. Io avevo chiesto a lei di portarmi dal mare una boccetta con dell’acqua marina e un sacchetto di sabbia. L’unica volta che ero stato al mare era stato tre anni prima in colonia e non sapevo ancora quando ci sarei tornato. Volevo l’acqua e la sabbia per analizzarli con il microscopio che avevo avuto in regalo in qualche recente occasione.

La mia classe di quinta elementare. In piedi a destra il maestro Rezzaghi. Ho visto anche foto di classe con lui, in cui si trovava nella stessa posizione e con lo sguardo sempre nella stessa direzione. 


Più del pallone amavo la bicicletta, che adesso era un bici da cross Legnano verde con tre marce. La maggior parte dei miei amici aveva la stessa marca di bici da cross senza marce, ma forse più adatta a saltare e compiere evoluzioni. La mia Legnano era adatta agli sterrati, (grazie ai pneumatici larghi e con il grip), e ad affrontare qualche ostacolo o dislivello, ma per via delle marce era più ideale per compiere percorsi lunghi, per il quartiere o per le stradine di campagna. Due miei nuovi compagni di classe abitavano in due diverse cascine: una a Macconago - dove c’era anche un piccolo plesso scolastico che, ai tempi in cui andavo a scuola in via Noto, era ancora funzionante; e spesso per intimorirci le maestre ci dicevano che ci avrebbero mandati lì - e una nella frazione Selvanesco. Con la bici ogni tanto andavo a trovarli dove abitavano e mi piaceva fare un giro dentro le cascine, che mi affascinavano. Spesso, all’inizio del pomeriggio, in attesa di riunirmi con gli altri amici, invece imboccavo la via dell’Assunta, nella parte in cui si immetteva fra i campi, passando a fianco di un cimitero in disuso (in cui spesso entravamo di nascosto a curiosare fra le tombe e le cappelle) e mi recavo fino a una stradina sterrata che si immetteva fra i prati. La stradina si trovava sotto un filare di alberi. Stavo lì un po’ e poi tornavo in quartiere.

La bici da cross, con il suo lungo sedile imbottito, era anche un mezzo che mi permetteva di dare un passaggio ad altri bambini. Fra questi anche bambine, che continuavano ad attrarmi sempre di più, anche se non avevo obiettivi di tipo sessuale. Probabilmente, il fatto di non avere avuto fratelli più grandi e frequentato i loro amici, fino a quel momento mi aveva lasciato piuttosto all’oscuro in materia di conquiste e di avventure erotiche. E non sapevo nemmeno più di tanto i nomi “volgari” delle parti “private” delle persone. Il pene era il “pistolino”, ai genitali femminili non abbinavo forse ancora nessun nome ma solo un’immagine vista finora pochissime volte. E comunque mai di una femmina sviluppata. 

Riccardo Cervelli 10 anni
Io a dieci anni e mezzo


Più o meno in quel periodo, un pomeriggio, mio padre mi chiamò e mi condusse nella camera da letto sua e di mia madre. Chiuse la porta e mi disse che mi doveva spiegare qualcosa. Mi chiese se sapevo come nascevano i bambini. Io dissi di no e lui mi spiegò, mimando le azioni fra noi due, completamente vestiti, che l’uomo e la donna si mettevano uno di fronte all'altra, appoggiavano i loro corpi uno contro l’altro e compivano il “coito”. Non parlò esplicitamente di organi sessuali e di penetrazione. E non disse neanche che quell’atto veniva compiuto - almeno nella maggior parte dei casi - da sdraiati e non in piedi. Ora, non ricordo più se di queste cose ero già venuto a conoscenza di altri coetanei. Forse fino a quel momento non mi ero nemmeno interessato più di tanto a come avvenisse il concepimento dei bambini. Fatto sta che compresi vagamente quello che mio padre voleva farmi intendere e non posi nessuna domanda di approfondimento. Il tutto durò pochi minuti e poi ognuno tornò ai fatti suoi ed io non pensai più di tanto all’episodio.

Però, come dicevo, qualche sensazione nuova iniziavo a provarla nei confronti di alcune bambine. Quando ho letto il romanzo A l'ombre des jeunes filles en fleurs di Marcel Proust mi sono ritrovato spesso in alcune situazioni e identificato con il ragazzino Marce.. Con alcune ragazzine iniziavo ad avere colloqui esclusivi e che potevano durare anche a lungo. Con la ragazzina di tre anni più grande di me parlavo molto di tanti argomenti come l’amicizia o gli interessi personali. Trovavamo molto affinità fra noi. Non so come, ma un certo momento conobbi una ragazzina che viveva in fondo a via Chopin e di cui non ricordo né il nome né per quanto tempo abbia vissuto lì, perché a un certo punto ne persi le tracce. Poteva avere la mia età o uno o due anni meno. Era alta quasi come me, era longilinea, aveva la carnagione scura, tanto che pensavo che fosse sempre abbronzata o che, dopo l’estate, le rimanesse l’abbronzatura a lungo. Probabilmente aveva origini meridionali. Aveva i capelli abbastanza corti ed era estroversa. Non ci frequentavamo, però ricordo che qualche volta l’ho accompagnata con la bici da scuola a casa sua. Sentirla seduta dietro di me, con il suo busto appoggiato alla mia schiena, e con la sua testa vicina alla mia per parlarmi, mi fece venire per la prima volta quella bellissima sensazione che si chiama “avere le farfalle nello stomaco”. 

Non so se ispirato da questa conoscenza, ma forse risale a quel periodo l’idea di scrivere un racconto in cui c’erano due bambini, un maschio e una femmina, che con la bicicletta di lui andavano a prestare soccorso a qualche altro bambino che era stato male o aveva avuto un infortunio, come se fossero due paramedici. Nell’epoca in cui scrissi questo abbozzo di romanzetto, ogni tanto venivano a trovarci i miei zii materni Miro Cusumano e Paola Errichelli, giornalista, critica teatrale, appassionata di letteratura, e figlia del giornalista Corrado Maria Errichelli. Con lei parlavo molto e mi faceva sempre molte domande. Quando le dissi che avevo scritto un racconto, mi chieste di prestarglielo perché voleva leggerlo. Poi, per non so quali motivi, deve essersi dimenticata di restituirmelo. 

Ma, come dicevo, sebbene l’erotismo non fosse poi così una faccenda estranea a me, nel senso che come la maggior parte dei bambini lo praticavo da solo, la mia idea di erotismo non comprendeva la possibilità di praticarlo con una ragazza. Non avevo ancora questo tipo di fantasie. Le bambine, o ragazzine, mi piacevano se i loro visi e altre caratteristiche fisiche e psicologiche mi facevano provare belle sensazioni, in alcuni casi estetiche e intellettuali, in altre solo estetiche o solo intellettuali. Ricordo sempre con dolcezza un episodio con una ragazzina coetanea o di un anno più piccola che, dopo qualche anno che già noi abitavamo in via Pick Mangiagalli, era venuta ad abitare nel nostro condominio. Era anche lei abbastanza alta e snella, con un viso molto carino e un carattere affabile. Un pomeriggio eravamo giù nella strada privata con i pattini a rotelle, quelli che oggi si chiamano “quad” per distinguerli da quelli “inline”. Percorremmo da soli, io e lei, più volte avanti e indietro la via parlando di argomenti che non ricordo, ma sicuramente del tipo che possono interessare dei preadolescenti. Da parte mia c’era certamente, lo ricordo, un po’ di attrazione nei suoi confronti, da parte sua non lo so, e probabilmente no. Però mi restò impresso questo momento condiviso in modo esclusivo fra noi, piacevole per lo meno sul piano dell’affettività.

(puntata aggiornata il 02/05/2022)

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


Autobiografia giovanile - Cap. 17 - Piano, oratorio, campeggio

 Eccoci al 1970. Il 10 gennaio di quell’anno ho compiuto 10 anni. Sono iniziati gli anni a doppia cifra. In quel periodo stavo frequentando la quarta classe alla scuola elementare di via Noto, Milano, sempre con la maestra Maria Gidino. Sempre classe maschile, quasi quaranta bambini, metà lombardi e metà immigrati dal Meridione, tutti con il grembiule o, più verosimilmente, la casacca nera, che non richiedeva il colletto bianco. A scuola non sono più in difficoltà come lo ero stato in seconda, a causa della provenienza da un’altra scuola di un altro quartiere di Milano, con conseguenti difficoltà ad adattarmi a tanti cambiamenti. A partire dalla terza, al contrario, ero diventato uno fra quelli considerati più bravi. Continuavo a essere, comunque, estroverso e vivace. Alcuni anni più tardi, in una lettera che ancora conservo, la maestra Gidino mi ha scritto che con le mie “arguzie facevo ridere tutta la classe”. E quando, negli anni delle superiori, ogni tanto andavo a trovarla in classe con il mio migliore amico, lei faceva mettere sull’attenti i bambini e ci presentava come “due dei miei migliori alunni”.

In quel periodo, oltre a frequentare con mio fratello un corso di scherma (fioretto) alla palestra di via Cerva, ho iniziato anche a prendere lezioni di pianoforte da una signora che abitava nel nostro condominio, il cui marito suonava i timpani in un’orchestra importante e che aveva due figli più grandi di me. Devo dire che sicuramente ero portato per suonare e in generale per lo studio della musica, ma ero anche attirato dalla vita libera che noi bambini di quel quartiere di periferia-campagna e di quel periodo storico, potevamo avere finita la scuola e il pranzo. Così, fra compiti, scherma e pianoforte, mi sentivo probabilmente un po’ sovraccarico e non vedevo l’ora di ritrovarmi con gli amici in strada o al campetto incolto attiguo al condominio. E da lì partire per esplorazioni nei boschetti, nei campi o nelle case abbandonate della zona. Oppure scendere con il mio amico coetaneo e compagno di classe, e magari il piccolino che mi dava una mano negli esperimenti, nella cantina che la mamma di un altro nostro amico ci aveva prestato per tenere televisori, radio e altre tecnologie elettroniche in disuso da smontare. O per costruire, secondo un mio progetto dell’epoca post sbarco sulla sulla, un razzo e delle tute spaziali. Per tornare al pianoforte, spesso arrivavo a lezione senza aver fatto gli esercizi di pratica (a casa era arrivato il piano che in passato stava a casa dei miei nonni materni) e di teoria (leggi solfeggio). Per fortuna la maestra di piano si limitava a rimproverarmi un poco e poi, pazientemente, cercavamo di andare avanti. Alla fine della lezione, provavamo sempre un brano un po’ difficile da suonare come saggio finale per i miei genitori.

Per restare al tema spaziale, non ricordo se per il carnevale di quell’anno, o addirittura per quello del 1969, alla festa organizzata in classe mi ero presentato mascherato da astronauta, con una tuta di plastica che, nel giro di pochi minuti, mi aveva fatto sudare tutto. Il casco, poi, sono riuscito a tenerlo su poco. Però ho l’impressione che mi ero molto divertito.

Ma oltre alla scuola e al condominio, fra il 1969 e il 1970 un altro luogo diventò un punto di riferimento fisso della mia vita: l’oratorio parrocchiale nel fine settimana, forse solo la domenica pomeriggio.

Vale la pena dedicare un po’ di spazio alla descrizione del posto. Iniziamo dalla chiesa di S. Maria Assunta, alla quale l’oratorio era annesso. Da quanto risulta prima di tutto da una lapide sulla facciata della chiesa (monumento nazionale) e da una delle fonti che sto utilizzando (“La nostra storia”, a cura della Commissione Cultura della Parrocchia Madonna di Fatima- Milano, documento pubblicato in occasione del cinquantenario dell’inaugurazione della chiesa Madonna di Fatima nel 2012), la chiesa S. Maria Assunta fu edificata nel XVI secondo, in un luogo dove c’era già stata una chiesetta costruita nel XII secolo. La chiesa dell’Assunta subì importanti interventi decorativi e di ampliamento sia nel secolo XVII che in quello XIX. Fino all’inaugurazione della nuova chiesa di Fatima nel 1962, l’Assunta fu la chiesa parrocchiale del Vigentino, che fino al 1923 era un comune in provincia di Milano.

La chiesa dell’Assunta si trovava, e si trova tutt’ora, sull’omonima piazzetta nella parte centro-Nord del quartiere Vigentino. Fino alla grande espansione del quartiere, iniziata nella prima metà del secolo scorso con la costruzione di case e condomini in cui ospitare una quota della popolazione milanese accresciuta con l’immigrazione dal Sud Italia, il Vigentino a Sud e a Ovest della chiesa dell’Assunta era costituito dalla parte finale della via Ripamonti, dove c’erano il capolinea del tram 24 e vecchie case con altrettanto storici negozi, e per il resto da cascine. 


cantiere via Assunta Milano anni '70
Foto scattata da mio nonno dal balcone che dava sulla via dell'Assunta. Esempio di costruzione di nuovi condominii. Dove si vede il cantiere c'era una cascina in cui viveva un nostro compagno delle elementari

Quando la mia famiglia si trasferì a Vigentino nel 1967, e già la chiesa più frequentata era quella moderna dedicata alla Madonna di Fatima (rispetto alla quale il nostro condominio si trovava dietro alla parte posteriore) il complesso della chiesa dell’Assunta, visto dalla piazza omonima era così. Al centro la facciata da cui si accedeva alla navata principale. A destra, si vedeva una costruzione realizzata che conteneva una nuova navata della chiesa, a cui si poteva teoricamente (in realtà non ho mai visto aperto quel portone) dall’esterno. Oggi so che questa navata era stata creata nei primi decenni del Novecento come “chiesa degli uomini” (una volta gli uomini e le donne sedevano in posti separati nelle chiese). Incastonata fra questa navata e il corpo principale e antico della chiesa, sulla destra della facciata principale c’era una casetta con giardino in cui viveva un sacerdote della parrocchia. Alla sinistra della facciata, invece, c’era il cancello dell’oratorio, dietro al quale c’era un cortile lastricato. In fondo al cortile, sulla destra, si trovava una porta che dava accesso direttamente alla chiesa passando sotto il campanile (infatti in quel punto scendevano dal soffitto delle corde per suonare le campane; sempre grande tentazione per noi bambini). Sempre in fondo al cortile, sulla sinistra, c’era invece un’altra porta, da cui si accedeva nel salone dell’oratorio. Invece, se una volta superata la cancellata si girava subito a sinistra, si accedeva a un piccolo vialetto porticato, sul quale si affacciavano dei locali diroccati: era un vecchio asilo delle suore appartenenti all'Ordine della "Congregazione della Divina Provvidenza" di Don Guanella, chiuso nel 1968. Ricordo ancora che per terra, in questi locali, si trovavano vecchi libretti e santini, di cui alcuni raffiguravano Don Guanella. Di fronte all’ex asilo c’era un giardinetto che lo collegava a una vecchia casa rettangolare, a cui si poteva accedere anche da un cancelletto sulla parte sinistra della piazza. Questa, mi fu spiegato, era la casa del parroco Emilio Penatti. Quando riuscii per la prima volta ad accedere a questa costruzione, era diventata disabitata in quanto in quel periodo il parroco era misteriosamente “sparito” dopo che era esploso uno scandalo circa l’utilizzo dei soldi che erano stati necessari per costruire la chiesa di Fatima (ricordo che della vicenda si occuparono anche i giornale, fra cui il settimanale ABC, che ebbi l’occasione di leggere).

Il cuore dell’oratorio era il lungo salone, al termine del quale (lato Est) c’era il palco per il teatrino e lo schermo su cui venivano proiettati dei film. Sulla destra del salone, alcune porte davano accesso a tre stanze, la prima della quali, con le finestre sul cortile, era quella dove delle signore molto gentili e sorridenti, allestivano dei tavolini pieni di dolciumi venduti a prezzo molto basso (caramelle, gomme da masticare, liquirizie etc.). All’inizio delle attività della domenica pomeriggio, un sacerdote della parrocchia incaricato di gestire l’oratorio, Don Francesco Colombini, ci portava, attraverso il passaggio sotto il campanile, nei primi banchi davanti a sinistra della navata della chiesa S. Maria Assunta a recitare delle preghiere. Mi sembra di ricordare che non tutti i bambini - maschi e femmine insieme (almeno questa istituzione, l’oratorio, nel nostro caso era mista) - si comportavano bene in quel momento. Alcuni stavano attenti e pregavano e altri chiacchieravano a bassa voce o facevano degli scherzi. Don Francesco non era allora un prete giovane, anzi era abbastanza avanti negli anni e dall’aspetto severo: magro, alto, con il viso quasi sempre serio. Mi sono sempre chiesto come mai fosse stato scelto lui: forse perché, nonostante le apparenze (almeno a me) amava i bambini ed era in grado di occuparsi della loro catechesi ed educazione; forse perché aveva il polso necessario a gestire una mandria di bambini scalmanati. Se la memoria non mi ha fatto scherzi fin dagli anni successivi, mi ricordo che un pomeriggio, nel cortile, si arrabbiò così tanto con uno o più bambini, dal minacciare di picchiarlo o picchiarli con la cintura dei pantaloni. Mi sembra anche che se la fosse sfilata. Allora, però, non era raro che gli adulti incaricati di curare ed educare i bambini (come dimostra la storia del direttore della colonia dove ero stato a Cesenatico nel 1967), arrivassero a urlare e ad usare dei mezzi correttivi fisici, ovviamente con molti limiti. Eventi che oggi farebbero insorgere molti genitori e portarli addirittura a sporgere delle denunce.

Il fatto che l’oratorio fosse misto per me è stato molto importante, perché ero abituato a passare molte ore in una classe elementare maschile e le poche bambine che conoscevo - a parte le mie sorelle molto più piccole di me - erano le coetanee (anno più o meno) del cortile. Che ormai conoscevo a menadito ed erano sempre le stesse. All’oratorio, invece, ho potuto conoscere altre femmine più grandi e più piccole che abitavano in altri condominii oppure nelle case vecchie - e probabilmente anche cascine - del Vigentino. Molte erano figlie di immigrati dal Meridione e notavo, in alcune, caratteri somatici spiccatamente mediterranei, che mi affascinavano, soprattutto se le bambine erano già ragazzine o quasi. Non so per quale motivo, ma ce n’era di due o tre anni più grande di me, che credo abitasse dall’altro lato della via Ripamonti in una casa di quelle preesistenti all’espansione del quartiere. Era più alta di me, snella, con i capelli lisci, neri, a metà lunghezza, con il colorito della pelle del viso sull’olivastro (non roseo insomma). Era tranquilla ma anche loquace. Non so perché ma quando la pensavo mi veniva in mente la parola “gelato”. Era per me la bambina “con la faccia da gelato”, anche se non esisteva alcun nesso fisiognomico tra un gelato e il suo volto. 

Non so se fu lei, o una sua amica, che durante i due tempi di una proiezione di un film, trovandosi seduta vicino a me, iniziò ad abbracciarmi, a accarezzarmi, a sussurrarmi frasi, e a baciarmi sul viso, e lo fece per tutto il tempo in cui le luci erano spente. Nessun contatto sessuale, sia chiaro (o almeno non ricordo), ma molta frenetica e per me inspiegabile espansività e possessività. Devo dire che io, in famiglia, non ero affatto abituato a ricevere quel tipo di gesti affettuosi. Io, dopo poco, smisi di apprezzare quegli abbracci, sussurri continui nell’orecchio (che non mi permettevano di seguire il film), baci, ma non avevo il coraggio o la forza o il desiderio di sottrarmi. Ero diventato una bambola di proprietà di quella bambina o ragazzina. Di solito, quando finivano i film, iniziavano a scorrere i titoli di coda e si accendevano le luci al neon del salone, noi bambini ci alzavamo urlando e ci buttavamo a spingerci e farci cadere nello spazio fra le panche e il palco del teatrino. Quella volta, invece, quando il film finì e la mia “amante” mi lasciò andare, mi sentii stordito e confuso. E anche sollevato dalla fine di quell’esperienza. Ricordo che per un po’ di tempo, anche durante la settimana quando mi trovavo per le strade del quartiere, avevo il timore di rivedere quella bambina.

Agli inizi dell’estate 1970 ho finito di frequentare la scuola elementare di via Noto, poiché, quell’anno, hanno finito di costruire la scuola elementare di via Wolf Ferrari, a neanche duecento metri da casa mia. 

Riccardo Cervelli 1970 Cogne
Io a Cogne nell'estate 1970 a 10 anni e mezzo

L’estate 1970 è stata la prima, dopo alcuni anni, in cui non siamo più andati in vacanza a Legri, in Toscana. I miei nonni avevano venduto la casa. Così ci siamo organizzati per andare a passare l’estate a Cogne, in Valle d’Aosta. Dal momento che ancora non avevamo acquistato una macchina e nostro padre non aveva la patente, la tenda e le valigie con i vestiti e gli altri suppellettili necessari sono stati spediti al campeggio con un corriere. Qualche giorno dopo noi siamo arrivati ad Aosta in pullman. Credo che abbiamo preso un pullman dell’Autostradale a Milano, poi abbiamo cambiato autobus in un’altra città, forse Santhià. Ad Aosta siamo saliti tutti su un auto a noleggio con conducente (non mi sembrava che fosse un taxi), un grande Mercedes beige guidata da un signore di mezza età molto gentile e discreto. Quindi siamo arrivati al camping, dove abbiamo montato una tenda a casetta blu, che forse era la stessa che avevano utilizzato nel 1964 a La Salle. 

Ricordo che di notte, anche se eravamo in piena estate, faceva molto freddo e bisognava andare a letto nei sacchi a pelo molto coperti, mi sembra addirittura con un cappello di lana. A Cogne e nei dintorni c’erano molto possibilità di escursioni. Spesso andavamo alle cascate di Lillaz, o a piedi fino a Valnontey, da dove si vedeva un panorama mozzafiato del Gran Paradiso. Il proprietario del campeggio e del bar aveva un camion. Qualche volta prendeva su me e mio fratello, ci faceva sedere nel posto del passeggero e ci portava avanti e indietro in qualche paese vicino. Era un camion rumoroso, con il cambio manuale, e non c’erano le cinture di sicurezza.

La prima estate a Cogne ho familiarizzato con gli altri bambini del campeggio, ma non mi ricordo di uno in particolare con cui avessi fatto amicizia, a differenza del secondo anno. Nella tenda a fianco alla nostra c’era una famiglia di torinesi: padre, madre e due maschietti dell’età mia e di mio fratello. Con loro spesso andavamo nella tenda di un ‘altra famiglia - credo anch’essa torinese - che aveva una figlia di circa 13 anni. Con lei avevano fatto amicizia degli altri ragazzi un po’ più grandi di lei, che una volta l’avevano portata a ballare. Ricordo che il giorno dopo, mentre ci trovavamo dentro la tenda, sentii un paio di loro parlare alla ragazza dell’esperienza del ballo e fare delle allusioni alle sue parti intime. Forse ci stavano, o continuavano, a “provarci”, ma inutilmente. Fu la prima volta che sentii una certa parola. Qualche giorno più tardi, seppi che, a causa forse di uno scherzo che uno dei due bambini della tenda vicino alla nostra, aveva fatto alla ragazza più grande di noi, scoppiò una lite fra le due famiglie. Sentii dire che il padre dei due bambini aveva fatto allusione al possesso di una pistola. Forse era un poliziotto in vacanza. Fatto sta che, forse soprattutto per questo fatto, il proprietario del campeggio mandò via questa famiglia e mia madre ci disse di essere dispiaciuta per il fatto che, a causa di un incidente che forse era sfuggito di mano, ci dovessero andare di mezzo i bambini, o la famiglia intera. 

Fu quella una delle prime volte, insieme quella in cui avevo assistito, per qualche minuto, a una rissa fra due uomini (che si rotolavano avvinghiati sull’asfalto in una cittadina di provincia), che mi resi conto che gli adulti potevano farsi del male a vicenda per motivi futili. Un’altra esperienza negativa che ebbi durante quella vacanza fu un incidente stradale davanti al campeggio. Il camping, come ho detto aveva un bar, dove c’era anche un juke box dal quale, fra parentesi, sentii per la prima volta canzoni di Lucio Battisti, che per me sono rimaste associate alle due estati di vacanza a Cogne. In quel bar veniva sempre un signore che alla fine della giornata ne usciva completamente ubriaco. Un pomeriggio, mentre mi trovavo con alcuni bambini nel prato del campeggio all’altezza della strada e del bar, sentii lo stridore di una lunga frenata. Andai verso l’ingresso del campeggio e vidi che alcuni uomini sostenevano il signore ubriaco, che era stato investito da un auto. Subito un ragazzo grande allontanò noi bambini dalla scena. Poi seppi che il ferito era stato subito trasportato con una macchina all’infermeria della miniera di ferro che si trovava sopra Cogno, ma che poi era morto.

Ho citato la miniera. In effetti, una delle cose che mi piacevano di Cogne erano i punti in cui venivano scaricati i detriti degli scavi della miniera. Rovistando fra le pietre, infatti, riuscivo sempre a trovarne alcune con dei cristalli di pirite, che sembravano (ma sapevo che non era così) oro. Salendo a piedi sopra Cogne, nelle vicinanze della miniera, inoltre, era possibile trovare delle stelle alpine. Sapevo già che erano fiori rari e che andavano lasciati lì. Nonostante ciò ne prendevo una o due da portare a Milano come ricordo.

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


Autobiografia giovanile - Cap. 16 - Politica

 Il 1969, e credo soprattutto a partire dall’autunno, deve essere stato l’anno in cui per la prima volta ho percepito con una certa chiarezza l’esistenza di un fenomeno che si chiamava politica. Qualcosa con cui avrei fatto i conti anche negli anni dell’adolescenza.

Ecco qualche scampolo di ricordi che si legano alla storia famigliare. 

Penso che sia stato nel 1969 che i miei genitori hanno iscritto me e mio fratello a un corso di scherma. La palestra si trovava in via Cerva e doveva essere anche un centro federale, dato che sulla cancellata c’era una targa con il nome e il simbolo del Coni (Comitato Olimpico Federale Italiano). Io avevo un maestro molto serio ma affabile che si chiamava Bonato di cognome (qualche anno più tardi verrà a sapere che era anche un capitano dei Carabinieri). Mio fratello invece era istruito da una maestra. Via Cerva è una stradina parallela a via Durini, che si trova fra Largo Augusto e piazza San Babila. Durante la settimana, per andare alle lezioni, io e mio fratello prendevamo il tram da soli. Ricordo che spesso, scendendo in via Mazzini, eravamo avvicinati da un anziano pedofilo, che ci chiedeva se volevamo andare a casa sua, dove aveva molti giocattoli. Benché fossi ancora relativamente piccolo, io avevo capito quali intenzioni avesse quell’uomo e ogni volta gentilmente declinavo il suo invito. Lo vedevo rinunciare qualche passo a fianco a noi deluso, ma forse abituato. 

Nel tardo pomeriggio ci veniva a prendere nostro padre, che allora lavorava alla sede della Banca Commerciale in piazza della Scala. Un paio di sabati pomeriggi sulla strada del ritorno insieme a nostro padre, dopo le abituali soste al bar trattoria Crota Piemontesa di piazza Beccaria, dove mangiavamo sempre un panino con il tonno, passammo da piazza del Duomo, dove erano in corso delle manifestazioni. In un caso, sentii da lontano uno che stava parlando da un palco e molte persone che lo contestavano. Capii che lui stava rispondendo “Io non ho paura di voi! Io non ho paura di voi”. Mio padre mi disse che l’oratore era Ugo La Malfa, segretario del Partito Repubblicano Italiano (PRI). I contestatori erano evidentemente di sinistra e giovani extraparlamentari di sinistra. Un’altra volta sentii un’altra voce più giovane. Anche nei suoi confronti c’erano delle persone che fischiavano e che urlavano “Tamara Baroni!”. Seppi che il contestato era Mario Capanna, uno dei fondatori del Movimento Studentesco, che era accusato di avere una relazione con l’attrice e modella Tamara Baroni, identificata come un simbolo della borghesia che il movimento voleva abbattere. Forse dopo quel fatto capii per la prima volta, o ebbi modo di approfondire, il concetto di incoerenza. Ricordo che in piazza del Duomo c’erano anche mezzi militari delle polizia e dei carabinieri.

Un tardo pomeriggio di dicembre eravamo a casa. A un certo punto squillò il telefono e mia madre andò a rispondere all’apparecchio che avevamo in soggiorno (un altro era nella loro camera da letto). Mi avvicinai alla mamma e capii che stava parlando con il papà. Alla fine della telefonata mi disse che nostro padre le aveva raccontato che stava tornando a casa e che in una banca del centro era probabilmente esplosa una caldaia. Era il 12 dicembre del 1969 e quella che era scoppiata - nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana - non era una caldaia ma una bomba, che aveva causato 16 morti. Ricordo anche di aver sentito che, negli stessi giorni, a mio padre, nella sede della Banca Commerciale in piazza della Scala, era capitato di aver dovuto raccogliere una valigetta in cui, mi sembra, dopo la polizia aveva rinvenuto un’altra bomba. Ma su questo fatto la memoria è meno precisa anche se la storia di mio padre e di una valigetta sospetta è sicura.

Riccardo Cervelli bambino
Io a 10 anni sulla mia amata bici da cross Legnano


Sempre in quel periodo, cioè fra il 1969 e il 1970, avevo capito qualcosa in più degli orientamenti politici nel mio ambiente famigliare. Ogni tanto, a casa nostra venivano a trovarci i miei zii materni, Miro Cusumano, fratello di mia madre, e Paola Errichelli, sua moglie. Mi colpiva il fatto che indossassero sempre dei jeans. Insomma, capii poi che si vestivano alla maniera dei giovani di sinistra. O meglio estrema sinistra. Un pomeriggio, mi trovavo giù, nella strada sotto casa, e mi trovavo in piedi a fianco di una macchina ferma in cui dentro c’erano i miei zii e un loro amico, Massimo, al posto di guida. Ricordo che chiesi che cosa fosse una bottiglia o un termos, che si trovava tra i due sedili davanti, e che Massimo, scherzando, mi disse che era una bottiglia molotov. In quel momento mi resi conto che i miei zii materni erano in qualche modo collegati al movimento di contestazione che era in corso in quel momento, anche se ancora non sapevo che si trattasse di quello del ‘68.

Più o meno nello stesso periodo della terza infanzia, preadolescenza, seppi anche che mio nonno paterno Nevio e mio zio paterno Alfredo erano simpatizzanti ed elettori del PCI (Partito Comunista Italiano). Mia nonna materna Iris Catarsi non so, e comunque in quell’epoca, come ho già scritto, non comunicava molto a causa di quella che chiamavano "arteriosclerosi". Mio nonno materno Matteo Cusumano, forse perché una volta glielo chiesi, si disse liberale. Mia nonna materna Carlotta Barbieri non aveva un credo politico preciso ma era comunque orientata verso il centro e, credo, la Democrazia Cristiana (DC). Mio padre e mia madre erano democristiani. Mio padre, mi disse una volta, da giovane aveva simpatizzato per i “radicali”, che però non dovevano coincidere con i militanti del Partito Radicale di Marco Pannella. Ma, da quando soprattutto eravamo venuti ad abitare a Vigentino, e mio padre era diventato molto attivo nel Comitato Opere Parrocchiali (COP), aveva iniziato a militare seriamente nella Democrazia Cristiana, e in particolare nella corrente della Base.

Dopo la strage di Piazza Fontana, sentii più forte la curiosità per la cronaca politica, in particolare quella legata a eventi molto particolari come la guerriglia urbana, le rivoluzioni, gli attentati e il terrorismo. Non nego che, forse perché c’era in me (rafforzata forse anche dall’ingiustizia subita da degli adulti in colonia nel 1967) una certa fascinazione per le ribellioni, dopo aver visto delle foto di un’azione terroristica avvenuta all’estero, per qualche giorno pensai tra me e me che, da grande, mi sarebbe piaciuto diventare un terrorista. Ma devo ammettere che, sempre a seguito dell’esposizione a qualche fatto di cronaca, pensai lo stesso verso il mestiere di spacciatore di droga. 

Il 16 dicembre 1969 avvenne il caso della caduta dell’anarchico Giuseppe Pinelli da una finestra della Questura di Milano, dove era tenuto in stato di fermo e interrogato dal Commissario Luigi Calabresi come sospettato della strage. Ancora oggi non posso dire di essere convinto su ciò che è avvenuto: se cioè Pinelli sia stato buttato giù dai poliziotti o si sia gettato per suicidarsi. I miei zii materni, invece, erano fra quelli che sostenevano che Pinelli era stato ucciso. Nel 1970 circa, non ricordo con sicurezza, i miei genitori mi avevano regalato un radioregistratore. Fra le cose che feci con quell’oggetto, che ho tenuto con affetto per diversi anni, ci fu quella di registrare, un giorno in cui ci vennero a trovare, i miei zii Miro e Paola cantare diverse canzoni. Fra queste mi rimase molto impressa la “Ballata di Pinelli”, che infatti poi imparai a memoria. In questa canzone Pinelli viene definito vittima di un assassinio da parte dei poliziotti che lo stavano interrogando, fra i quali c’erano il commissario Calabresi e il questore Antonino Allegra. 

Qualche giorno dopo la strage di Piazza Fontana, oltre a Pinelli fu arrestato come sospetto coautore anche l’anarchico Pietro Valpreda. Nel 1972 Valpreda fu candidato alle elezioni politiche nelle liste del Manifesto, che partecipava per la prima volta come partito “parlamentare”, lasciando così la propria identità “extra parlamentare”. Ricordo che in quell’occasione sentii dire a mia madre che stava prendendo in considerazione l’idea di votare Valpreda, perché evidentemente convinta dell’innocenza dell’anarchico. La cosa mi sorprese perché non avevo mai pensato che mia madre potesse votare un partito di sinistra, figuriamoci di estrema sinistra. La notizia mi fece molto piacere perché riconobbi in mia mamma una grande onestà intellettuale.

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


Autobiografia giovanile - Cap. 15 - Sbarco sulla luna

 Il 1969 è un anno che per me è ricco di ricordi precisi e di altri che, sebbene non sia sicuro essere riconducibili a quell’anno, riguardano fatti molto verosimilmente avvenuti in esso o in quello subito successivo.

Nella seconda metà del 1968, mentre io frequentavo la terza elementare alla scuola di via Noto, mia madre è rimasta incinta. Il 15 aprile è nata la mia seconda sorella Susanna, pre-termine. A differenza di noi primi tre, Susanna non è stata partorita alla clinica Mangiagalli ma alla Regina Elena. Iniziato il travaglio, mentre per noi primi tre nostra madre ha raggiunto l’ospedale in ambulanza (poiché non avevamo l’auto), questa volta è stato un nostro vicino, padre di nostri amici, a portarla alla Regina Elena con la sua Fiat 500 multipla. Credo che i nostri genitori si fossero già messi d’accordo per questo favore. Quando, dopo qualche giorno, nostra madre è tornata a casa, per farci vedere la nuova sorellina ci ha mandato sul balcone e ce l’ha mostrata attraverso il vetro della portafinestra. Subito non mi è sembrata la solita neonata, perché era piccolissima e, senza offesa, l’ho paragonata a piccola scimmietta. Nostra madre deve aver preso questa precauzione di presentarci Susanna attraverso il vetro perché, data la condizione di prematura, temeva che nostra sorella potesse essere infettata da noi. In quegli anni, del resto, si facevano ai bambini già diverse vaccinazioni (antipolio, antidifterica, antivaiolosa), ma non esistevano (o almeno non erano utilizzati) i vaccini contro malattie come pertosse, varicella, morbillo, parotite, rosolia, scarlattina. Se ti dovevi “beccare” una di queste malattie cosiddette “infantili”, te la beccavi e restavi chiuso nella tua stanza per tutto il tempo necessario per guarire. Ti portava il cibo e curavano i genitori che avevano già contratto la tale malattia e si tenevano distanti fratelli e amici (non dico cugini, perché non ne avevano, perlomeno di primo grado e abitanti vicini) a meno che qualcuno non decidesse che fosse meglio che si ammalassero anche loro, così da sviluppare gli anticorpi e non pensarci più. In quel periodo, non mi risulta che nessuno di noi - tranne me e mio fratello, che avevamo già fatto la pertosse (o “tosse cattiva”, come si diceva allora), avesse già contratto le altre malattie esantematiche. Per l’esattezza, non ricordo se Annarita si fosse già ammalata (e resterà, se non sbaglio l’unica) di scarlattina. Se non era già avvenuto, lo è poco tempo dopo.

Per rimanere al 1969, nella prima metà dell’anno andavo spesso il pomeriggio dai miei nonni materni a vedere la “Tv dei ragazzi”. In particolare, come ho già scritto, cercavo di non perdermi nessuna puntata della serie “I ragazzi di padre Tobia”, che mi appassionava molto perché raccontava le avventure di un gruppo di bambini scout di una parrocchia, seguiti da padre Tobia e dal sagrestano Giacinto. La serie è famosa anche per la canzone originale “Chi trova un amico trova un tesoro”, che mi piaceva e che subito ho imparato e canticchiato spesso. In quel periodo, inoltre, alla tv guardavo anche qualche trasmissione che si occupava della preparazione e della cronaca della missione spaziale americana Apollo 11 che ebbe al centro lo sbarco di due astronauti (Neil Armstrong e Buzz Aldrin) sulla Luna, avvenuto il 20 luglio. Ricordo che un po’ mi spiaceva per il terzo astronauta, Michael Collins, che era rimasto a bordo della navicella che doveva riportare tutto l’equipaggio sulla Terra. Lo immaginavo attendere gli altri due su questa navicella orbitante intorno alla Luna e apprezzavo il suo sacrificio di non essere potuto scendere con gli altri sul nostro satellite naturale.

Delle trasmissioni sullo sbarco sulla Luna mi piaceva tutto. In particolare mi affascinavano le immagini del centro di controllo dove c’erano file di scrivanie che, sopra ognuna, un monitor e una tastiera, e davanti scienziati e tecnici che avevano ciascuno un compito preciso per il successo e la sicurezza della missione. 

Sempre come ho già scritto, in quel periodo dell’infanzia si era già manifestata la mia attrazione per tutto ciò che riguardava la scienza e la tecnologia elettronica. Soprattutto quest’ultima rappresentava un forte denominatore comune con un amico, vicino di casa, coetaneo e compagno di classe, con cui dividevo ragionamenti, progetti e attività che avevano come oggetto l’elettronica o, almeno, l’elettricità. La mamma di un altro comune amico, sempre vicino di casa, coscritto e compagno di scuola, in quel periodo concesse a me e all’altro amico in una delle due cantine di pertinenza del loro appartamento doppio, che occupava tutto un piano di una scala della nostra via. Questa famiglia necessitava di un’abitazione così grande poiché era costituita da due genitori e ben nove figli. Però, evidentemente, non aveva l’esigenza anche della seconda cantina e così dette le chiavi a me e al nostro amico, che la utilizzammo per portarci vari oggetti elettronici da smontare e sperimentare. In quei mesi, fece molta amicizia con me un bambino, fratello minore della mia amica di tre anni più grande di me.  Lui, invece, aveva quattro anni meno di me, ma mi sembrava avere un’intelligenza e una maturità superiori alle media, per un bambino di cinque anni. Passava molte ore con me e l’altro mio amico nella cantina. Io, in particolare, gli assegnavo dei piccoli compiti che lui era felice di svolgere, e inoltre cercavo di rispondere alle sue domande. Credo che in quell’occasione ho provato per la prima volta il gusto di insegnare qualcosa a qualcuno più giovane. 

Ricordo che, nei mesi successivi allo sbarco sulla Luna, io proposi al mio amico coetaneo di costruire un razzo, chiamato Diel, per andare o sulla Luna o da qualche altra parte nello spazio. Da dove veniva quel nome? Era semplicemente quello di un’azienda che vedevo stampato su alcuni condensatori che dissaldavo da circuiti di vecchie radio o televisioni. Si trattava di condensatori in mica, alcuni dei quali avevo aperto per tirare fuori i piccoli nastri di mica argentata, che poi mi ricordavano (probabilmente) anche la mica che avevo trovato spesso nei minerali che raccoglievo. Il progetto Diel prevedeva anche la fabbricazione di tute da astronauta ottenute cucendo fra loro tappi di yogurt, fatti di alluminio. Qualche anno più tardi, qualche amico o - più probabilmente amica - mi ha raccontato che avevo chiesto ai nostri amici del condominio di procurarmi più tappi possibili.

Dopo i giorni dello sbarco sulla Luna arrivò il momento di andare in vacanza a Legri. Credo che sia stata questa la seconda volta in cui, per raggiungere la Toscana, invece del treno abbiamo usato un auto. Se non sbaglio la prima volta era stata nel 1968, e a portarci giù era stato il mio padrino della Comunione con una Volkswagen Maggiolino. Ricordo bene che eravamo ben stipati in sette nell’auto: sei umani e un cane barboncino nero di medio-grandi dimensioni di nome Sweetie (per noi “Suitti”). Un cane di cui non ho un particolare buon ricordo perché nel cortile, dopo essere stato lasciato slegato, era difficilisse da rimettere al guinzaglio: ci continuava a girare intorno e non si faceva prendere. Non era gradito da alcuni vicini di casa: qualche volta una donna del terzo piano, vedendo dal balcone che stavamo rientrando a casa con il cane, chiamava l’ascensore e lo teneva fermo al suo piano, costringendoci a salire a piedi fino al quinto. Per vendicarmi, un tardo pomeriggio, rientrando dai giochi in strada, scesi in cantina e staccai loro la luce dal contatore. Scese quindi il marito, il quale mi prese per un orecchio di mi portò su così fino a casa mia.

Dicevo di quel viaggio fino a Legri del 1968. Mi è rimasta impressa la prima visione dell’autostrada del Sole (oggi A1). Allora, ne sono quasi certo, aveva due corsie per carreggiata. A metà strada circa fra Milano e Calenzano, forse poco prima di iniziare i tunnel dell’Appennino tosco-emiliano, c’era un’area di sosta con una chiesetta. Lì ci siamo fermati a fare un pic-nic. Un’altra cosa che mi è rimasta nella memoria è il vedere che, sulla corsia di sorpasso, ci superavano soprattutto le auto Giulia Alfa Romeo. E così, io e mio fratello stavamo sempre con lo sguardo verso la strada indietro a vedere le macchine dietro di noi. Quando ne vedevamo una, urlavamo: “Arriva una Giulia!”.

Ma nell’estate 1969, ad accompagnarci fino a Legri in macchina, sempre che ciò sia effettivamente avvenuto, deve essere stata un’altra persona, forse un collega di nostro padre. Come negli altri anni, quella vacanza nella pieve sopra Calenzano deve essere stata molto bella, con il sole sempre splendente, i giochi con le bambine e qualche volta i bambini - nella piazza della chiesa o nella pineta -, le passeggiate fuori dal paese. Non so se quell’anno, o in uno precedente, nostro padre portò me e mio fratello a visitare la città di Lucca, dove lui era nato nel febbraio 1936. Andammo sicuramente con i mezzi pubblici, autobus e forse treno. Non ricordo di essere andato a visitare alcun parente, sempre che ce ne fossero molti o pochi ormai viventi in quella città. Penso che a mio padre piacesse - come avrebbe sempre voluto anche nei decenni successivi - rivedere la sua città natale (qualche anno più tardi mi raccontò che abitavano nella zona Borgo Giannotti), della quale però non credo potesse conservare molti ricordi di infanzia (dato che già all’epoca della seconda guerra mondiale abitava a Milano). Della città, durante quella visita, mi rimasero impresse nella memoria solo le mura esterne, con un camminamento in alto, che percorremmo. E i bagno pubblici, o meglio i “vespasiani”, che si trovavano lungo quelle mura. Fu quella la prima volta che sentii quel nome (“vespasiano”) che oggi credo in disuso.

A settembre, prima di rientrare a Milano (ricordo che allora le scuole iniziavano il primo ottobre), mio nonno Matteo scattò una bella foto di gruppo di noi bambini (gli unici maschi presenti eravamo solo io e mio fratello) e nostra madre con in braccio Susanna. Ho saputo in questi ultimi anni, avendo ripreso contatti con alcune di quelle allora bambine, che mio nonno inviò quella foto ad almeno una di loro, la più piccola, di un anno più grande della mia sorella Annarita. E ho saputo che i miei nonni e i miei genitori, in effetti, anche loro avevano stretto rapporti di amicizia o conoscenza con gli altri adulti del paese. 

Fatto sta, comunque, che forse già durante quella vacanza mio nonno doveva aver deciso di vendere la casa. In effetti, fra casa e il terreno (una campo di grano, che in una delle prime vacanze avevo visto trebbiare con un grande macchinario, e un uliveto), la gestione non doveva essere semplice per un uomo di ormai ottant’anni (era nato a Cinisi, Palermo, nel 1889). Infatti aveva dovuto prendere un mezzadro, che per quanto potesse essere una persona onesta e precisa, era pur sempre qualcuno non della famiglia e con cui trattare. Ho saputo in questi ultimi anni che la casa (non so se anche il terreno, che comunque mio nonne vendette) fu acquistata dal padre di una delle nostre amiche di Legri (quella che ferì giocando mio fratello nella casetta su un albero). E di questo ne sono oggi contento, visto che era una brava persona e che poi l’ha ristrutturata bene e la possiede tutt’oggi.

Io e mio padre nel novembre 1969 davanti alla nostra abitazione in via Pick Mangiagalli a Milano

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


Autobiografia giovanile - Cap. 14 - Nonni diversi

 Della famiglia di mio padre, a differenza di quella di mia madre, non ho mai avuto molte notizie. La mia esperienza, in una certa misura, conferma l’opinione diffusa secondo cui, di solito, le madri restano più legate alle famiglie d’origine di quanto non lo rimangano i padri con le loro. Di conseguenza, è più frequente che i figli di una famiglia vedano più spesso i nonni materni di quelli paterni che non il contrario. L’esperienza dei miei figli e quelle, per esempio, dei figli di una delle mie due sorelle, confermano questa tendenza. Del resto, più una volta che oggi, ma ancora oggi, sono le madri a trascorrere più tempo con i figli piccoli rispetto ai padri. E le madri tendono a farsi aiutare dalle loro madri. Non è un caso, quindi, che - almeno a quanto ho potuto notare personalmente - le giovani famiglie tendano a cercare la casa definitiva più vicino alle abitazioni dei genitori delle mogli che non a quelle dei genitori dei mariti. 

Il mio caso, fino a un certo punto, è stato inizialmente un po’ diverso. I miei nonni materni abitavano in via Venini, nella zona Loreto di Milano, in una bella e grande casa in affitto. Quando si sono sposati, i miei genitori devono aver scelto la mia prima casa in via D’Alviano, zona Lorenteggio, per una maggiore accessibilità dei prezzi degli affitti rispetto a zona Loreto. Quando, nel 1966-1967, hanno acquistato l’appartamento in un condominio in costruzione in zona Vigentino - Fatima nel Sud di Milano, devono aver scelto questa zona perché era in una parte della periferia in fase di popolamento e gli immobili avevano costi più accessibili che in altre parti di Milano, soprattutto quelle interne. 

Io con sullo sfondo la casa in cui vivevano i miei nonni materni in zona Vigentino, vicino a noi

Sia come non sia, in quel periodo i proprietari dell’appartamento dei miei nonni materni avevano deciso di venderlo, ma i miei nonni avevano deciso di non acquistarlo. Quindi, dopo aver vissuto lì tra i venti e i trent’anni, nel 1968 circa hanno preferito traslocare anche loro vicino alla famiglia della figlia, cioè mia madre. Il nuovo appartamento, molto più piccolo, era situato in un condominio a poche centinaia di metri dal nostro. Più esattamente, l’ingresso e la parte anteriore di esso si trovava alla fine di una stradina pedonale a cui vi accedeva da via Val di Sole (di cui il caseggiato era un numero civico). La parte posteriore, invece, dava su via dell’Assunta. Percorrendo a piedi una stradina sterrata che collegava la via Wolf Ferrari (una delle due strade in cui sbuca la via Pick Mangiagalli, dove abitavamo noi) e la via dell’Assunta, in dieci minuti io potevo arrivare a casa dei miei nonni materni.

Ed era una cosa che facevo spesso, anche considerato che, come tutti i bambini, avevo iniziato ad amare la televisione, e i miei nonni l’avevano mentre noi no. Dalla fine del 1968 in poi molto spesso passavo la prima metà del pomeriggio nel salotto dei miei nonni a vedere i programmi della “Tv dei ragazzi”. In particolare mi piacevano la serie “I ragazzi di padre Tobia” e i “Giochi senza Frontiere”. E ovviamente anche lo Zecchino d’Oro, che prima andare a vivere tutti a Vigentino, invece, ascoltavo nella vecchia casa alla radio. 

Io su un gioco nel parco giochi di Corso Indipendenza, a Milano, vicino alla casa dei miei nonni paterni

Potendo frequentare quotidianamente i nonni materni, con cui già passavamo le vacanze estive a Legri, in breve tempo riuscii a conoscere molto della loro storia. In particolare di quella di mia nonna, che era nata a Milano e quindi aveva molti parenti, che erano anche parenti di mia madre e, di conseguenza anche miei. I miei nonni paterni, invece, abitavano in via Ciro Menotti, in zona Risorgimento. Fin da piccolo li avevo visti molto meno dei nonni materni, non ero mai stato affidato loro né avevo trascorso con loro delle vacanze. Ogni tanto li andavamo a trovare. Mia nonna paterna, Iris Catarsi, era più anziana di mio nonno Nevio Cervelli e, purtroppo, iniziava ad avere segni di una demenza senile. Quando andavamo a trovarli a casa loro, preparava per me e mio fratello un tè caldo. Avevo visto più spesso mio nonno e mio zio Alfredo Cervelli. Era in quegli anni ancora un giovane venticinque-trentenne. Aveva una moto sulla quale, una volta, mi aveva portato a fare un giro dell’isolato: era la prima volta che salivo su un mezzo così e lo avevo trovato emozionante. Poi aveva acquistato una Simca 1000, con cui qualche volta veniva a trovarci in via Pick Mangiagalli e accompagnava me, mio fratello e nostro padre da qualche parte. Ma la famiglia di mio padre si era trapiantata a Milano negli anni Quaranta senza altri parenti. E quindi non ho mai conosciuto loro congiunti. Della famiglia di mio padre ho conosciuto solo padre, madre, e i due figli, di cui uno, appunto, mio padre Nilo.

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)

Autobiografia giovanile - Cap. 13 - Bambine, tecnologia e scienza

 Una cosa di cui mi ricordo bene di me da bambino è stata la capacità di creare relazioni forti sia con gli altri bambini maschi sia con le bambine. Come ho già scritto, dalla seconda elementare fino addirittura a metà del liceo sono sempre stato in classi maschili. Solo in prima elementare fra il 1966 e il 1967 ero stato in una classe mista. Non avevo frequentato la scuola materna, avevo un fratello poco più piccolo di me maschio, fra me e mia sorella Annarita c’erano cinque anni e mezzo di differenza, anche nel mese circa di colonia a Cesenatico avevo vissuto solo fra maschi, perché le bambine erano tenute separate.

Fortunatamente, almeno nel condominio in cui siamo andati a vivere nell’estate 1967 ho potuto fare amicizia con le prime bambine (fatta salva, in precedenza, la brevissima amicizia con una sorellina di un compagno di prima elementare, quando vivevamo ancora in via D’Alviano, nella periferia Ovest di Milano). Il condominio di via Pick Mangiagalli, nel quartiere Fatima, zona Vigentino di Milano (Sud), aveva più o meno bambini di entrambi i sessi in egual misura. E giocavamo tutti insieme nel cortile, nella via o nel cosiddetto “campetto”, un prato sovrastato da una pianta grande e antica, pieno di erbacce e buche. Qui, un tardo pomeriggio, mi ero ritrovato da solo con una amica, che era anche la mia fidanzatina, e siccome le era sopravvenuto un bisogno fisiologico e mi aveva chiesto di prestarle aiuto a trovare una foglia con cui asciugarsi, ho colto la palla al balzo per farmi vedere meglio come fosse stata nelle parti privata una persona dell’altro sesso. Tolta la curiosità non ci pensai più, mentre continuai a provare piacere tanto nel giocare e parlare con i maschi quanto a fare queste due cose con le femmine. Nel parlare, poi, scoprii che ero molto portato a farlo con alcune bambine, in particolare una di tre anni più grande di me, che aveva delle piccole bamboline con le quali ci faceva divertire inventandosi delle rappresentazioni teatrali in cui gli attori principali erano un paio di queste bamboline..

Alla scuola elementare, comunque, i due mondi non si incontravano. Sia la mia classe che quella di mio fratello erano maschili, e così credo che non fossero classi miste in tutto il plesso scolastico. Così le mie uniche amiche femmine erano ancora solo quelle del cortile. Ricordo che una mattina la mia maestra, con cui dalla terza elementare (1968-1967) avevo finalmente intrecciato un buon rapporto di stima e affettività, mi inviò a consegnare un foglio di una classe la cui maestra era chiamata anche la “capogruppo”. Era, insomma, una maestra normale ma anche una coordinatrice o qualche cosa del genere. Si chiamava Montegani e, nonostante non fosse più giovane e avesse un’aria autorevole, suscitava ugualmente molta serenità e simpatia. Quando bussai alla porta, lei mi fece entrare nell’aula e io mi trovai davanti a una classe tutta piena di bambine di prima elementare. Mi rimase impressa l’immagine di queste bambine, una o due delle quali avevo già visto in quartiere, tutte sedute composte, con il grembiulino bianco, e tutte dietro a banchi in cui, nel buco destinato al calamaio (che nella nostra classe utilizzavamo ancora), avevano un vasetto con una piantina grassa o un piccolo cactus.

Sempre io nel 1968, a otto anni, con il mio padrino della Prima Comunione

L’altro luogo, oltre al cortile, dove nell’epoca fra i sette e i nove anni ho avuto modo di giocare e interagire spesso con bambine è stato Legri (un borgo vicino a Calenzano, in provincia di Firenze, dove dal 1966 avevamo iniziato a trascorrere le vacanze estive, e di cui ho già parlato spesso nei capitolo precedenti). Come ho già avuto modo di scrivere, i maschi della mia età non li frequentavo se non quando si svolgevano dei giochi nella pineta organizzati da seminaristi del Pime, che venivano nella pieve di Legri a trascorrere le vacanze e a intrattenere noi piccoli. Ricordo solo di qualche volta in cui mi sono trovato in pineta con altri bambini maschi, che avevano costruito delle slitte con delle cassette di frutto e delle assi, utilizzate come pattini, e con queste scendevano da un pendio erboso fino al centro della pineta. Ma in generale i bambini maschi, a differenza delle coetanee femmine, erano più liberi di scorrazzare fuori dal borgo; oppure, come recentemente mi ha detto qualcuno, andavano ad aiutare gli adulti nei lavori di campagna. E così io e mio fratello, durante mattine e lunghi pomeriggi, ci ritrovavamo a giocare con alcune bambine nel centro del paese. 

C’era una bambina che aveva solo un anno meno di me e che era molto intraprendente. Con lei mi trovavo spesso, anche quando non c’era tutto il gruppo delle altre bimbe. Un giorno avvenne un piccolo incidente, che può capitare quando si hanno diversi bambini insieme, con età leggermente diverse. Io, lei, un’altra bambina più grande di noi e mio fratello ci eravamo arrampicati su un albero dove era già stata costruita una piccola piattaforma di legno. L’obiettivo era continuare il lavori per costruire una vera e propria casetta. A un certo punto, non ricordo più perché, la mia amica si è arrabbiata con mio fratello e gli ha dato un piccolo colpo con il martello sulla fronte. Il colpo non era forte, ma siccome è stato dato con i martello dalla parte del tirachiodi, sulla fronte di mio fratello si è formato un piccolo taglio. Subito il padre della nostra amica ha portato mio fratello in un ospedale a Calenzano, ma per fortuna hanno dovuto solo disinfettare e medicare la ferita, senza dover neppure mettere dei punti.

Nella compagnia c’erano anche due sorelle. Una, più grande, aveva tre anni più di me. Era soprattutto lei che proponeva quali giochi fare. Era longilinea, un po’ più alta di noi (intendo io, mio fratello e le altre bambine), con un  bel viso e i capelli lunghi e scuri raccolti in due treccine stile Pocahontas. Io sicuramente provavo un certo fascino nel guardarla fisicamente e come si comportava. La trovavo molto carina e interessante. La sorella aveva invece tre anni meno di me ed era molto diversa fisicamente. Aveva anche lei le trecce, portava gli occhiali, non era alta ed era robusta. Nonostante la allora non piccola differenza di età, aveva un modo molto sicuro di sé e maturo  di comportarsi, credo perché aveva un modello nella sorella più grande. Quindi stava perfettamente a suo agio fra noi e viceversa. Poi c’erano anche un’altra bambina della mia età, che aveva un viso molto carino e interessante, con due occhi grandi e che a me sembravano a volte malinconici o dallo sguardo aristocratico. Non erano ovviamente tutte le bambine con cui giocavano, ma sono quelle delle quali ho più conservato un ricordo vivido. 

Credo che nel 1968 ho colmato quel gap di conoscenza dell’altro sesso che non credo che, neanche a quei tempi, avevano altri bambini che avevano avuto la fortuna di avere sorelle più grandi o quasi coetanee, cugine che vivevano vicino, o erano andati fin da piccolo a scuole materne ed elementari con classi miste. Da quell’anno, invece, ho iniziato a provare molto interesse per la tecnologia e la scienza. Per quanto riguarda la prima, lo dimostra anche il piacere con cui, insieme alla bambina dell’incidente con il martello che ho raccontato prima, mi sono cimentato a Legri nella costruzione della casa sull’albero. Ma anche quello con cui, avendo visto i bambini maschi autocostruirsi delle slitte da erba, poi volli provare a costruirne una anche io, utilizzando legni, seghetto, martello e chiodi. 

Foto di gruppo dei maschi che hanno ricevuto la Prima Comunione nel 1968. Io credo di essere il primo da destra nella terza fila, con il viso nascosto da un altro bambino, ma con i riccioli sporgenti. Molti di questi bambini erano sia miei amici del cortile sia compagni di classe. Allora la Prima Comunione e la Cresima di ricevevano in seconda elementare.

A Milano, invece, in quel periodo ho stretto una forte amicizia con un bambino del condominio che aveva la mia età e con cui frequentavamo anche la stessa classe elementare. Ricordo ancora come fosse ieri che un giorno, io e lui abbiamo percorso la stessa strada insieme alle nostre madri. Mentre le mamme parlavano delle loro faccende, io e lui ci siamo raccontati di come ad entrambi interessassero gli oggetti elettrici o elettronici. A tutti e due capitava di smontare quelli che erano rotti, prima che venissero buttati. Diventammo grandi amici e iniziammo a passare del tempo insieme a smontare vecchi televisori e altri apparecchi. Ma, a me in particolare, interessavano anche alcuni argomenti scientifici, fra cui la mineralogia, la chimica e l’astronomia. A Legri raccoglievo e catalogavo pietre che trovavo durante le passeggiate fuori dal borgo. A Milano, furono decisivi un paio di regali che ricevetti in occasione di una festa di compleanno a casa e di un Natale. Il primo fu un Piccolo Chimico e l’altro una scatola contenente un piccolo telescopio, un astrolabio e un libro sugli oggetti del cosmo. 

In seguito io, mio padre e mio fratelli facemmo diverse gite con il gruppo speleologico mineralogico dei dipendenti della Banca Commerciale Italiana, dove lavorava nostro padre. Ricordo di essere stato a visitare delle grotte e delle zone dove si poteva, anche utilizzando un martello e uno scalpello, trovare minerali e fossili.

(puntata aggiornata il 02/05/2022)

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)

Autobiografia giovanile - Cap. 12 - Aspirante missionario

 Della religione cattolica, nello scorrere della mia terza infanzia, mi attiravano alcuni aspetti attinenti alla dimensione comunitaria, a quella solidaristica e a quella estetica. Nel primo periodo della mia vita nel quartiere Vigentino, come ho già scritto, apprezzavo la presenza di ragazzi più grandi, di giovani adulti e di sacerdoti che organizzavano attività sia di preghiera e di riflessione religiosa sia di tipo ricreativo per noi bambini, sempre all’interno della chiesa di Fatima: credo che in quei mesi l’oratorio della chiesa dell’Assunta, che non avevo ancora visto, fosse chiuso per restauri.

A volte, a causa del mio carattere un po’ esuberante, facevo arrabbiare qualche animatore della parrocchia. Un pomeriggio, durante una riunione per i chierichetti in una sala dietro l’altare della chiesa di Fatima, un responsabile si indispettì a tal punto, per un mio atteggiamento di disturbo, che picchiò il manico di un ombrello su un tavolino con un ripiano di vetro da causare delle crepe in quest’ultimo. Ma in genere mi comportavo in modo da farmi volere bene dai più grandi, dagli adulti e dai sacerdoti. Sempre in tema di rapporti bambini-adulti nel contesto religioso ero contento che nel paese toscano di Legri, dove trascorrevamo ancora le vacanze estive, venissero dal Pime (Pio istituto missioni estere) di Milano alcuni giovani seminaristi i quali passavano molto tempo con noi bambini - residenti e villeggianti - intrattenendoci con giochi vicino alla chiesa o nella pineta. E ancora a Legri, spesso, nel tardo pomeriggio, accompagnavo di spontanea volontà mia nonna Carla in chiesa a recitare il Rosario insieme ad altre donne del paese. Mi piaceva passare del tempo dentro la chiesa - una antica pieve - e sentire le voci accorata di queste donne che recitavano tante Ave Marie. Come ho già accennato, mia nonna amava molto la figura della Madonna e oggi so che ne parlava spesso anche ai bambini suoi alunni. Anch’io provavo un certo fascino per le immagini di Maria, soprattutto della natività. A quei tempi, poco fuori Legri, c’era una fontanella sopra alla quale c’era una nicchia con un quadretto di ceramica raffigurante il volto della Vergine Maria. Trent’anni dopo la mia ultima vacanza nel borgo vicino a Calenzano, sono tornato per poche decine di minuti durante una gita e ho rivisto questa immagine. In quel momento ho provato un tonfo nel cuore.

Una antica fontanella con una maiolica raffigurante la Madonna a Legri. Foto del 1990

Come dicevo, della religione cattolica apprezzavo anche i messaggi di amore e di solidarietà verso il prossimo. Allora, il tema della missioni era molto più sentito di oggi. Fuori dalle chiese si tenevano spesso mercatini per raccogliere fondi e beni da inviare ai missionari. In quelle occasioni io restavo affascinato dagli oggetti di artigianato africano in vendita e dalle foto dei villaggi in cui si trovavano le missioni. Mi piacevano in modo particolare quelle con i bambini. Decisi, per un breve periodo, che da grande mi sarebbe piaciuto fare il missionario in Uganda e ne parlai con una bambina del mio condominio, di due anni più piccola di me, che mi disse che sarebbe venuta volentieri con me come suora.

Infine, mi faceva molto piacere, la domenica, andare alla messa per i bambini che si teneva alle 9.30 nella chiesa di Fatima. Era anche un’altra bella occasione per rivedere i bambini del quartiere, fra i quali anche alcuni compagni di scuola. Mi piaceva molto cantare le canzoni religiose: questo aspetto fa parte dell’attrazione per alcuni aspetti estetici della vita cristiana. Spesso le messe per i bambini erano officiate dal parroco don Emilio Penatti, che mi aveva impartito la Prima Comunione ed emanava molta simpatia ed ironia.

Il parroco Don Luigi Penatti impartisce la Prima Comunione nel 1968. Io sono il secondo in filaa dietro il bambino con il vestito bianco.

Intanto nel condominio iniziavano a nascere amicizie fra le famiglie, in particolare fra quelle che avevano figli delle stesse fasce di età. E oltre l'amicizia, c'era spesso anche la solidarietà. Ad esempio, noi non avevamo l'auto e così, per fare cose che l'avrebbero richiesta, come una scampagnata, si prestava volentieri qualche altra famiglia a ospitarci a bordo della loro. E' in questo modo che siamo andati la prima volta in montagna una giornata d'inverno con una famiglia che aveva due figli maschi dell'età mia e di mio fratello. Un'altra gita che ho sempre ricordato spesso è stata quella al Po fatta con un'altra famiglia, con tre figlie femmine e che aveva un'auto familiare con tre file di sedili. Ricordo che al fiume noi bambini ci divertivamo a scivolare giù da un argine in cemento, che ho mangiato per la prima volta le alborelle fritte da un cartoccio a cono di carta oleata, e che ho visto sfrecciare qualche motoscafo.

(puntata aggiornata il 02/05/2022)

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


Autobiografia giovanile - Cap. 11 - Sacramenti

 Il primo anno interamente vissuto nel nuovo quartiere Vigentino, nell’estrema periferia sud di Milano, è il 1968. Anno simbolico di inizio di un vasto e internazionale movimento di  contestazione giovanile che porterà a profondi cambiamenti nella cultura, nel costume e nella politica nei decenni successivi. 

Quando scoppia il ‘68 io ho otto anni e frequento, con le vicissitudini che ho già avuto modo di raccontare nel capitolo precedente, la seconda classe alla scuola elementare Luigi Dottesio di via Noto. Non è ancora passato un anno dal trasloco. Mese dopo mese la mia cerchia di amicizie si allarga. Nel condominio ci sono molte famiglie giovani che sono venute ad abitare negli appartamenti nuovi di zecca con bambini e ragazzi. Sulle vetrate dei portoni delle varie scale appaiono in continuazione fiocchi azzurri o rosa ad indicare che il tasso di natalità è elevato. 

Non appena arriva la bella stagione i bambini iniziano a scendere a giocare in cortile divisi per gruppi di età vicine. Io e mio fratello tendiamo a socializzare con tutti i bambini che hanno dai sei (nati nel 1962) ai dieci o undici anni (nati nel 1957). Sia che ci ritroviamo nei cortili dei tre diversi caseggiati, sia che giochiamo nella strada privata (dove passano poche macchine, e comunque quasi sempre a passo d’uomo), sia che ci spingiamo fino a un campetto triangolare assai incolto che si trova adiacente al lato nord del condominio, non corriamo molti pericoli anche se veniamo lasciati da soli, tutt’al più vigilati dai balconi dalle madri.

Nel giro di pochi mesi si forma un’allegra brigata di bambini e bambine che giocano insieme e che, in molti casi, frequentano anche le stesse classi a scuola. Della mia classe seconda A siamo in tre. Ma anche mio fratello ha altri due compagni di classe che ritrova il pomeriggio anche in cortile. Si forma una “banda” di condominio che, a seconda dei mesi, è nota nel resto della zona con il mio cognome o con quello di un altro bambino con cui sono molto amico e che è anche lui della mia classe. Le altre bande sono formate da bambini che sono nati nel quartiere o si sono trasferiti in questo prima di noi. In generale, questi bambini appartengono a un ceto sociale un po’ più basso di quello che è venuto ad abitare nei nuovi condomini. 

Foto scattata all'interno di un nuovo condominio. Quello in cui abitavo il è quello in fondo a destra

Sono bambini in prevalenza figli di immigrati dal Sud Italia o figli di residenti nelle cascine presenti sia all’interno della zona Vigentino sia nelle campagne circostanti. Se anche noi “della via Pick Mangiagalli” (pian piano le vie intorno alla chiesa di Fatima iniziano ad essere intitolate e non più propaggini della via Ripamonti), godiamo di una certa libertà di giocare da soli per ore e ore in cortile, nella strada privata o nel campetto, questi bambini “autoctoni” sono ancora più liberi, perché magari figli di famiglie numerose in cui i genitori lavorano entrambi, o perché abituati fin da piccoli a muoversi nel quartiere per commissioni. Ogni tanti fra queste bande e la nostra scoppiano nelle piccole battaglie a colpi di sassi o brevi corpo a corpo. Per i primi tempi è la nostra a subire le incursioni e non il contrario.

Intanto le mie amicizie si ampliano anche nel contesto scolastico. Io ho una certa propensione a conoscere e stringere legami con bambini anche al di fuori del condominio, una tendenza che continuerà anche negli anni dell’adolescenza, quando tenderò per lunghi periodi a frequentare compagnie che vivono in altri quartieri di Milano. E così, fintanto che non sono io a potermi muovere molto fuori dalla mia via, ricevo a volte visite di compagni di scuola che vengono a giocare con me nel campetto incolto fino a che non diventa buio. Le mie frequentazioni fuori condominio o quartiere sono assolutamente interclassiste: da allora non ho mai avuto problemi ad avere contemporaneamente, oltre ad amici del mio stesso livello sociale, anche anche agli antipodi. Ho accumulato molte belle esperienze sia frequentando bambini di famiglie povere che altri di famiglie molto benestanti. 

Alla fine, i bambini sono sempre bambini, con ventagli di interessi, passioni, capacità o difficoltà molto simili al di là delle condizioni sociali, delle provenienze geografiche e delle generazioni. A noi bambini degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta sono sicuramente mancati i videogiochi, i telefonini e i computer, ed avevamo un numero di canali televisivi molto limitato; per questo motivo leggevano più fumetti, passavamo molto tempo in presenza fisica fra di noi, e tendevamo a costruire da noi i giochi o a modificare quelli esistenti. Ma, riflettendo oggi su come vedo trascorrere il tempo ai bambini di oggi - sia a scuola sia al di fuori - ritrovo tanti passatempi analoghi ai nostri. Come noi con le figurine di calcio Panini, i bambini delle elementari di oggi collezionano le figurine di Pokemon e se le scambiano fra loro non appena riescono, anche fra un’ora di lezione e l’altra. E come noi leggevamo i fumetti (nel mio caso soprattutto Il Giornalino e il Corriere dei Piccoli) ora leggono i manga. Se c’è un gioco che non vedo più oggi è quello della pistola da cowboy con le “bombette”, sostituita magari da altri tipi di armi giocattolo più tecnologiche. Le bambole ci sono sempre e così le barzellette con Pierino.

Io il giorno della mia Prima Comunione

Per tornare a me e ai miei tempi di bambino di otto anni, un elemento molto presente, oltre ai giochi con altri bambini a scuola o in cortile, è stata la Chiesa. Dopo la costruzione e il popolamento il quartiere intorno alla chiesa di Fatima, questa è diventata il principale polo della parrocchia del Vigentino, anche per i bambini. L’antica chiesa dell’Assunta, nell’omonima piazza, è diventata un luogo meno frequentato, con poche messe. Credo che nel primo paio d’anni dal nostro trasferimento a Vigentino, anche le attività rivolte ai bambini e ai giovani fossero state momentaneamente spostate nella chiesa di Fatima. Infatti, ricordo che qui, fra il 1967 e 1968, si proiettavano dei film destinati ai bambini in un salone sotterraneo. A fianco della chiesa sorgeva ancora una grossa baracca di legno, probabilmente rimasta dalla fine del cantiere di costruzione, e nella quale ho frequentato le prime riunioni per i chierichetti e da dove - con alcuni animatori adulti - partivamo per compiere delle brevi camminate nei campi.

Nella primavera 1968 ricevetti i sacramenti della Cresima, della Confessione e della Prima Comunione. Da parte soprattutto di mia madre, la vita religiosa era considerata molto seriamente. In casa non si dicevano parolacce, non si parlava di sesso e, almeno un paio di volte, in cui mi era venuto da scherzare sul diavolo, mia mamma mi disse che c’era il rischio che mi apparisse davanti. Una volta che commissi un presunto peccato con uno degli amici della scuola che venivano a trovarmi al campetto, mia madre mi chiese di andarmi a confessare. Mi recai in chiesa ma non raccontai nulla al prete, un po’ per vergogna e un po’ perché non ritenevo di doverlo fare. Essendo passate poche settimane dalla Prima Comunione, mi ritrovai però ragionare, pur con le capacità di un bambino, sul fatto di dover obbedire a determinate regole della mia religione, anche se non mi veniva naturale farlo. Con questo non voglio dire che mia madre fosse bigotta e conservatrice. Negli anni successivi l’ho vista accettare molte mie scelte controcorrente - rispetto a come mi aspettavo che le lei e la mia famiglia avrebbero preferito - non con rassegnazione ma anche offrendosi di sostenermi. Però, se devo fare un paragone fra la religiosità di mia nonna materna ex maestra elementare e d’asilo, e quella di mia madre, trovo che quella della nonna fosse più basata su una devozione alimentata da esempi di vita amorevole (la Madonna, il Bambin Gesù, gli angeli, i bambini) e quella di mia madre più su un approccio teologico. 

Mio padre era impegnato nella parrocchia come membro del Comitato Opere Parrocchiali. Ma con lui non parlavo mai (o quasi mai) di argomenti legati alla religione.

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)

Autobiografia da adulto - Cap. 11 - Idoneo alle armi

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