Autobiografia giovanile - Cap. 15 - Sbarco sulla luna

 Il 1969 è un anno che per me è ricco di ricordi precisi e di altri che, sebbene non sia sicuro essere riconducibili a quell’anno, riguardano fatti molto verosimilmente avvenuti in esso o in quello subito successivo.

Nella seconda metà del 1968, mentre io frequentavo la terza elementare alla scuola di via Noto, mia madre è rimasta incinta. Il 15 aprile è nata la mia seconda sorella Susanna, pre-termine. A differenza di noi primi tre, Susanna non è stata partorita alla clinica Mangiagalli ma alla Regina Elena. Iniziato il travaglio, mentre per noi primi tre nostra madre ha raggiunto l’ospedale in ambulanza (poiché non avevamo l’auto), questa volta è stato un nostro vicino, padre di nostri amici, a portarla alla Regina Elena con la sua Fiat 500 multipla. Credo che i nostri genitori si fossero già messi d’accordo per questo favore. Quando, dopo qualche giorno, nostra madre è tornata a casa, per farci vedere la nuova sorellina ci ha mandato sul balcone e ce l’ha mostrata attraverso il vetro della portafinestra. Subito non mi è sembrata la solita neonata, perché era piccolissima e, senza offesa, l’ho paragonata a piccola scimmietta. Nostra madre deve aver preso questa precauzione di presentarci Susanna attraverso il vetro perché, data la condizione di prematura, temeva che nostra sorella potesse essere infettata da noi. In quegli anni, del resto, si facevano ai bambini già diverse vaccinazioni (antipolio, antidifterica, antivaiolosa), ma non esistevano (o almeno non erano utilizzati) i vaccini contro malattie come pertosse, varicella, morbillo, parotite, rosolia, scarlattina. Se ti dovevi “beccare” una di queste malattie cosiddette “infantili”, te la beccavi e restavi chiuso nella tua stanza per tutto il tempo necessario per guarire. Ti portava il cibo e curavano i genitori che avevano già contratto la tale malattia e si tenevano distanti fratelli e amici (non dico cugini, perché non ne avevano, perlomeno di primo grado e abitanti vicini) a meno che qualcuno non decidesse che fosse meglio che si ammalassero anche loro, così da sviluppare gli anticorpi e non pensarci più. In quel periodo, non mi risulta che nessuno di noi - tranne me e mio fratello, che avevamo già fatto la pertosse (o “tosse cattiva”, come si diceva allora), avesse già contratto le altre malattie esantematiche. Per l’esattezza, non ricordo se Annarita si fosse già ammalata (e resterà, se non sbaglio l’unica) di scarlattina. Se non era già avvenuto, lo è poco tempo dopo.

Per rimanere al 1969, nella prima metà dell’anno andavo spesso il pomeriggio dai miei nonni materni a vedere la “Tv dei ragazzi”. In particolare, come ho già scritto, cercavo di non perdermi nessuna puntata della serie “I ragazzi di padre Tobia”, che mi appassionava molto perché raccontava le avventure di un gruppo di bambini scout di una parrocchia, seguiti da padre Tobia e dal sagrestano Giacinto. La serie è famosa anche per la canzone originale “Chi trova un amico trova un tesoro”, che mi piaceva e che subito ho imparato e canticchiato spesso. In quel periodo, inoltre, alla tv guardavo anche qualche trasmissione che si occupava della preparazione e della cronaca della missione spaziale americana Apollo 11 che ebbe al centro lo sbarco di due astronauti (Neil Armstrong e Buzz Aldrin) sulla Luna, avvenuto il 20 luglio. Ricordo che un po’ mi spiaceva per il terzo astronauta, Michael Collins, che era rimasto a bordo della navicella che doveva riportare tutto l’equipaggio sulla Terra. Lo immaginavo attendere gli altri due su questa navicella orbitante intorno alla Luna e apprezzavo il suo sacrificio di non essere potuto scendere con gli altri sul nostro satellite naturale.

Delle trasmissioni sullo sbarco sulla Luna mi piaceva tutto. In particolare mi affascinavano le immagini del centro di controllo dove c’erano file di scrivanie che, sopra ognuna, un monitor e una tastiera, e davanti scienziati e tecnici che avevano ciascuno un compito preciso per il successo e la sicurezza della missione. 

Sempre come ho già scritto, in quel periodo dell’infanzia si era già manifestata la mia attrazione per tutto ciò che riguardava la scienza e la tecnologia elettronica. Soprattutto quest’ultima rappresentava un forte denominatore comune con un amico, vicino di casa, coetaneo e compagno di classe, con cui dividevo ragionamenti, progetti e attività che avevano come oggetto l’elettronica o, almeno, l’elettricità. La mamma di un altro comune amico, sempre vicino di casa, coscritto e compagno di scuola, in quel periodo concesse a me e all’altro amico in una delle due cantine di pertinenza del loro appartamento doppio, che occupava tutto un piano di una scala della nostra via. Questa famiglia necessitava di un’abitazione così grande poiché era costituita da due genitori e ben nove figli. Però, evidentemente, non aveva l’esigenza anche della seconda cantina e così dette le chiavi a me e al nostro amico, che la utilizzammo per portarci vari oggetti elettronici da smontare e sperimentare. In quei mesi, fece molta amicizia con me un bambino, fratello minore della mia amica di tre anni più grande di me.  Lui, invece, aveva quattro anni meno di me, ma mi sembrava avere un’intelligenza e una maturità superiori alle media, per un bambino di cinque anni. Passava molte ore con me e l’altro mio amico nella cantina. Io, in particolare, gli assegnavo dei piccoli compiti che lui era felice di svolgere, e inoltre cercavo di rispondere alle sue domande. Credo che in quell’occasione ho provato per la prima volta il gusto di insegnare qualcosa a qualcuno più giovane. 

Ricordo che, nei mesi successivi allo sbarco sulla Luna, io proposi al mio amico coetaneo di costruire un razzo, chiamato Diel, per andare o sulla Luna o da qualche altra parte nello spazio. Da dove veniva quel nome? Era semplicemente quello di un’azienda che vedevo stampato su alcuni condensatori che dissaldavo da circuiti di vecchie radio o televisioni. Si trattava di condensatori in mica, alcuni dei quali avevo aperto per tirare fuori i piccoli nastri di mica argentata, che poi mi ricordavano (probabilmente) anche la mica che avevo trovato spesso nei minerali che raccoglievo. Il progetto Diel prevedeva anche la fabbricazione di tute da astronauta ottenute cucendo fra loro tappi di yogurt, fatti di alluminio. Qualche anno più tardi, qualche amico o - più probabilmente amica - mi ha raccontato che avevo chiesto ai nostri amici del condominio di procurarmi più tappi possibili.

Dopo i giorni dello sbarco sulla Luna arrivò il momento di andare in vacanza a Legri. Credo che sia stata questa la seconda volta in cui, per raggiungere la Toscana, invece del treno abbiamo usato un auto. Se non sbaglio la prima volta era stata nel 1968, e a portarci giù era stato il mio padrino della Comunione con una Volkswagen Maggiolino. Ricordo bene che eravamo ben stipati in sette nell’auto: sei umani e un cane barboncino nero di medio-grandi dimensioni di nome Sweetie (per noi “Suitti”). Un cane di cui non ho un particolare buon ricordo perché nel cortile, dopo essere stato lasciato slegato, era difficilisse da rimettere al guinzaglio: ci continuava a girare intorno e non si faceva prendere. Non era gradito da alcuni vicini di casa: qualche volta una donna del terzo piano, vedendo dal balcone che stavamo rientrando a casa con il cane, chiamava l’ascensore e lo teneva fermo al suo piano, costringendoci a salire a piedi fino al quinto. Per vendicarmi, un tardo pomeriggio, rientrando dai giochi in strada, scesi in cantina e staccai loro la luce dal contatore. Scese quindi il marito, il quale mi prese per un orecchio di mi portò su così fino a casa mia.

Dicevo di quel viaggio fino a Legri del 1968. Mi è rimasta impressa la prima visione dell’autostrada del Sole (oggi A1). Allora, ne sono quasi certo, aveva due corsie per carreggiata. A metà strada circa fra Milano e Calenzano, forse poco prima di iniziare i tunnel dell’Appennino tosco-emiliano, c’era un’area di sosta con una chiesetta. Lì ci siamo fermati a fare un pic-nic. Un’altra cosa che mi è rimasta nella memoria è il vedere che, sulla corsia di sorpasso, ci superavano soprattutto le auto Giulia Alfa Romeo. E così, io e mio fratello stavamo sempre con lo sguardo verso la strada indietro a vedere le macchine dietro di noi. Quando ne vedevamo una, urlavamo: “Arriva una Giulia!”.

Ma nell’estate 1969, ad accompagnarci fino a Legri in macchina, sempre che ciò sia effettivamente avvenuto, deve essere stata un’altra persona, forse un collega di nostro padre. Come negli altri anni, quella vacanza nella pieve sopra Calenzano deve essere stata molto bella, con il sole sempre splendente, i giochi con le bambine e qualche volta i bambini - nella piazza della chiesa o nella pineta -, le passeggiate fuori dal paese. Non so se quell’anno, o in uno precedente, nostro padre portò me e mio fratello a visitare la città di Lucca, dove lui era nato nel febbraio 1936. Andammo sicuramente con i mezzi pubblici, autobus e forse treno. Non ricordo di essere andato a visitare alcun parente, sempre che ce ne fossero molti o pochi ormai viventi in quella città. Penso che a mio padre piacesse - come avrebbe sempre voluto anche nei decenni successivi - rivedere la sua città natale (qualche anno più tardi mi raccontò che abitavano nella zona Borgo Giannotti), della quale però non credo potesse conservare molti ricordi di infanzia (dato che già all’epoca della seconda guerra mondiale abitava a Milano). Della città, durante quella visita, mi rimasero impresse nella memoria solo le mura esterne, con un camminamento in alto, che percorremmo. E i bagno pubblici, o meglio i “vespasiani”, che si trovavano lungo quelle mura. Fu quella la prima volta che sentii quel nome (“vespasiano”) che oggi credo in disuso.

A settembre, prima di rientrare a Milano (ricordo che allora le scuole iniziavano il primo ottobre), mio nonno Matteo scattò una bella foto di gruppo di noi bambini (gli unici maschi presenti eravamo solo io e mio fratello) e nostra madre con in braccio Susanna. Ho saputo in questi ultimi anni, avendo ripreso contatti con alcune di quelle allora bambine, che mio nonno inviò quella foto ad almeno una di loro, la più piccola, di un anno più grande della mia sorella Annarita. E ho saputo che i miei nonni e i miei genitori, in effetti, anche loro avevano stretto rapporti di amicizia o conoscenza con gli altri adulti del paese. 

Fatto sta, comunque, che forse già durante quella vacanza mio nonno doveva aver deciso di vendere la casa. In effetti, fra casa e il terreno (una campo di grano, che in una delle prime vacanze avevo visto trebbiare con un grande macchinario, e un uliveto), la gestione non doveva essere semplice per un uomo di ormai ottant’anni (era nato a Cinisi, Palermo, nel 1889). Infatti aveva dovuto prendere un mezzadro, che per quanto potesse essere una persona onesta e precisa, era pur sempre qualcuno non della famiglia e con cui trattare. Ho saputo in questi ultimi anni che la casa (non so se anche il terreno, che comunque mio nonne vendette) fu acquistata dal padre di una delle nostre amiche di Legri (quella che ferì giocando mio fratello nella casetta su un albero). E di questo ne sono oggi contento, visto che era una brava persona e che poi l’ha ristrutturata bene e la possiede tutt’oggi.

Io e mio padre nel novembre 1969 davanti alla nostra abitazione in via Pick Mangiagalli a Milano

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


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