Autobiografia da adulto - Cap. 10 - In attesa di chiamata

Riprendo, dopo una lunga parentesi impegnativa per questioni soprattutto di lavoro, questa autobiografia. Negli ultimi capitoli mi sono soffermato soprattutto su alcuni fatti avvenuti fra il 1981 (primo anno di lavoro, all’inizio part-time e poi full-time; difficoltà a conciliare nuovi impegni crescenti con lo studio universitario alla facoltà di Lettere Moderne dell’Università Statale di Milano; processo penale per una vecchia storia di militanza politica, conclusosi con assoluzione con formula piena; brevissima avventura con una ragazza di un paio d’anni più grande di me; attività in occasione di una visita in Italia di Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai Internazionale; vacanze estive con amici in Olanda, Inghilterra e Scozia; lungo ricovero di mia madre, etc.) e il 1982. Di quest’ultimo anno e del successivo ho solo fornito alcuni brevi accenni. Con il racconto di alcuni avvenimenti e della situazione del 1982 e 1983 vorrei concludere il resoconto di questi tre anni che hanno preceduto il servizio militare di leva (febbraio 1984 - gennaio 1985), il quale, come per la maggior parte dei giovani che lo hanno svolto, ha rappresentato uno spartiacque nella prima parte della mia vita.

Per quanto riguarda la pratica buddhista, ritengo esatto far risalire al 1982 il mio passaggio da responsabile di un gruppo di Milano a responsabile di settore. Questa nomina giunse inaspettata per me e altri miei amici, in quanto, quando arrivò la voce che avrei cambiato gruppo, si pensava che sarei diventato responsabile di un altro gruppo, non di un settore composto da cinque gruppi. Così invece fu, segno che i responsabili più elevati di allora riponevano una grande fiducia nei miei confronti. Accettai subito la proposta di questa nuova responsabilità, anche perché rappresentava uno stimolo a una nuova crescita personale che abbracciava la pratica buddista e anche altri aspetti della mia vita. 

L’ambiente del mio lavoro si ampliò, ma io mantenni la posizione che avevo, il che significò diventare la colonna (soprattutto operativa, data la mia giovanissima età) di una “macchina” che ora aveva, fra gli altri, un nuovo direttore (Antonio Pilati, che veniva a lavorare in redazione al pomeriggio, spesso accompagnato da me, visto che abitava lungo la mia strada per l’ufficio) e nuovi collaboratori esterni. A questi si aggiunsero anche alcuni collaboratori che venivano a lavorare in redazione, giovani come me, fra i quali un paio di ragazze molto simpatiche e carine. 

Benché provassi a volte attrazione per qualcuna delle mie giovani colleghe, così come per alcune praticanti buddhiste, però, una caratteristica di questo triennio fu che, dopo l’esperienza del 1981, non volli mai buttarmi veramente sul serio a iniziare una nuova relazione. Più di uno i motivi: uno sicuramente la mia insicurezza rispetto al corteggiare ragazze; un altro il fatto che, nonostante lavorassi in un ruolo che spesso mi costringeva a stare in redazione ben oltre le classiche otto ore, e che avessi una nuova impegnativa responsabilità nell’organizzazione buddhista, volevo comunque cercare di portare avanti gli studi universitari, benché da non frequentante; terzo, che agiva in modo inconscio, il fatto di dover ancora svolgere il servizio militare: un confine vago che cercavo di spostare più avanti possibile con rinvii per motivi di studio. 

Rinvii di cui, a un certo punto, non potei più usufruire. Per poterli godere occorreva sostenere almeno un esame per anno accademico. Nel 1981, nonostante tutto, riuscii a superare un esame di quelli relativamente più facili, benché al secondo tentativo. Si trattava di Geografia umana, per il quale avevo studiato soprattutto leggendo i libri (non avevo frequentato le lezioni) durante il viaggio estivo in Scozia. La prima volta venni mandato via, la seconda lo passai, seppur con un misero ventidue. Nel 1982, invece, mi accinsi a preparare un esame pesante: Storia della lingua italiana. Scelsi questo esame anche perché questo corso avevo cominciato a seguirlo in presenza all’inizio dell’anno accademico 1980-1981, prima di passare dal lavoro part-time (solo pomeriggio) a quello full-time. Il corso era tenuto da più professori. La parte monografica, dedicata alla storia della Lessicografia, era svolta dal professor Maurizio Gentile, un docente già abbastanza anziano, da me considerato molto carismatico, ma anche severo: ricordo che una mattina arrivai a lezione con dieci minuti di ritardo e non mi ammise in aula. Un’altra parte del corso era tenuta da un altro professore, di cui non ricordo il nome, più giovane ma sui quaranta-cinquant’anni, e riguardava direttamente la storia della lingua italiana, a partire dal latino, dal volgare, dai dialetti (a volte vere e proprie lingue) fino ad arrivare all’italiano oggi comunemente usato in tutto il Paese. In queste lezioni si parlava anche di linguistica, che poi sarebbe diventato uno dei temi che continuo ancora oggi a studiare per conto mio e che, ad ogni modo, mi sono serviti anche per crescere come giornalista. 

Il primo anno, comunque, avevo soprasseduto dal tentare questo esame particolarmente impegnativo. Nell’anno accademico 1981-1982 scelsi di concentrarmi - con tutte le difficoltà dovute alla non frequenza, al numero di libri da studiare, al cambiamento annuale del programma del corso, e ai numerosi impegni di lavoro, di attività buddhista e sociale (ci tenevo a uscire anche con gli amici non buddhisti) - su questo esame. Purtroppo non andò bene. Il 17 dicembre 1982, un venerdì (magari i superstiziosi avranno qualcosa da ridire sul venerdì 17 che avevo scelto), mi presentai davanti agli esaminatori e ad iniziare a interrogarmi fu proprio il professor Gentile. Già alla prima domanda si accorse che non ero preparato bene. Gli chiesi di provare a pormi un’altra domanda e fallì nel rispondere anche a quella. Quindi mi disse che dovevo ritornare un’altra volta e io gli rivelai: “Così non potrò più chiedere il rinvio del servizio militare…”. Allora lui si alzò in piedi con il volto severo e disse con ironia: “Che cosa dobbiamo fare, metterci sull’attenti?”. Accusai il colpo e lo guardai con un po' di vergogna per il tentativo goffo di fare compassione e passare l’esame, magari con un voto bassissimo. Al che fui rincuorato vedendo il professor Gentile cambiare espressione, assumerne una tranquilla e dirmi: “Vai, caro”. Quel “caro” non me lo dimenticherò mai, rappresenta per me una prova di come si possa essere allo stesso tempo severi ma molto umani. Per la cronaca, qualche anno più tardi il professor Gentile divenne rettore dell’Università degli Studi di Milano. Quando lo seppi provai orgoglio per aver conosciuto una persona così importante. Quando, ancora qualche anno più tardi, lessi sui giornali che era morto, mi dispiacque.

Dopo quella bocciatura, mi rassegnai all’idea che avrei potuto ricevere presto la “cartolina” di richiamo al servizio militare, la “naja”, prima di laurearmi. E così avrei anche interrotto l’attuale esperienza lavorativa. Prima, però, pensai di giocare un’altra carta. Da qualche anno mi sottoponevo periodicamente ad esami del sangue per tenere sotto controllo i valori del fegato, e non erano perfetti. Quindi chiesi una visita all’Ospedale Militare di Baggio (si chiamava così quello di Milano) e lì mi sottoposero a un prelievo del sangue. Ricordo che, subito dopo il prelievo, mi si offuscò la vista e mi sentii svenire. Mi fecero sdraiare su un lettino e dopo dieci minuti passò tutto. Ringraziai il dottore e l’infermiere, entrambi militari, perché erano stati premurosissimi. I risultati confermarono che i valori erano, benché di poco, fuori dalla norma. Fui dichiarato “T.N.I. 180 gg”, brutto acronimo che significava “temporaneamente non idonei per sei mesi”. 

Per tornare alla mia situazione degli anni 1982 e 1983, che cose ricordo con particolare affetto? Nel 1982, dopo il primo anno da giornalista, che continuavo a ripetermi (e a dire anche ad altre persone) era un lavoro che mi era arrivato “non cercato” e che non intendevo continuare dopo la laurea, avevo iniziato a prendere gusto per questa professione. La rivista in cui lavoravo, “Pubblicità Domani”, si rivolgeva agli operatori della pubblicità (in agenzie, aziende, editori), che scoprii essere un mondo pieno di persone interessanti e che richiedeva l’integrazione di attività molto diversificate e tutte ricche di temi che mi incuriosivano e affascinavano: dal marketing alle strategie di comunicazione, dalla creatività alla produzione di spot, alla pianificazione dei media. Inoltre, la maggior parte di queste persone con cui entravo in contatto - soprattutto manager di grandi agenzie o fondatori di strutture più piccole, direttori creativi, direttori media, responsabili pubblicità di importanti aziende italiane e multinazionali - esprimeva simpatia, stima e spesso volontà di mentorship nei miei confronti, come giovane giornalista volonteroso, perspicace ed empatico.

Nel 1982, due eventi importanti, diversi fra loro, catturarono la mia attenzione e mi portarono ad “abbeverarmi” quotidianamente al lavoro giornalistico svolto da colleghi molto più esperti di me su testate nazionali e in televisione: il crack del Banco Ambrosiano (con la morte del banchiere Roberto Calvi, trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra) e i Mondiali di Calcio in Spagna, vinti dall’Italia nella finale contro la Germania. 

Del 1982 e del 1983 ricordo sempre, come occasioni di esperienze molto intense (soprattutto belle, ma anche qualcuna non piacevole), le vacanze con amici del quartiere rispettivamente in Spagna e a Vieste, in Puglia. Della prima ricordo soprattutto il calore - oltre quello meteo - con il quale gli spagnoli ci salutavano, quando ci vedevano, dicendoci: “Italiani, campeones do mundo”. E poi la bellezza dei panorami delle colline dell’Andalusia, della città di Malaga, dove eravamo campeggiati, e delle uscite serati a Torremolinos. Ovviamente ci fermeranno anche a Barcellona, dove ero stato da solo nel 1978. 

Di Vieste, cittadina di origine del padre di due dei miei amici con cui ero in vacanza, ricordo la simpatia dei ragazzi e delle ragazze che ho conosciuto, il fascino dei vicoli dove la sera andavamo a comperare il moscato fatto in casa da una signora, le gradinate dove poi andavamo a sederci la sera (dove ci veniva spesso a salutare una bambina piccola del posto, vestita un po’ poveramente, che non parlava italiano ma solo dialetto) e un grande trabucco. Quasi sempre questo era la meta dell'ultima parte della serata. Da lì mi piaceva osservare il mare, che si estendeva davanti a noi nella notte, con increspature argentate dalla luce della luna che potevano essere causate da piccole onde o da pesci che saltavano fuori dall’acqua per tornarci subito. E cercavo di immaginarmi le terre lontane, invisibili dietro l’orizzonte. 

Io in Spagna nell'estate 1982


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