Autobiografia da adulto - Cap. 1 - Rinascita

 L’autunno del 1979, che da un punto di vista esistenziale era iniziato più come un inverno, si è trasformato in una primavera. Durante l’estate avevo toccato i punti più bassi di un modo di vivere che avevo inaugurato l’anno precedente all’insegna del definitivo disimpegno politico, ma anche di uno sblocco deciso dei freni inibitori nei confronti di esperienze fortemente autodistruttive. Nella primavera - questa volta in senso reale - dell’anno, avevo però avuto la possibilità - con il mio primo inizio della pratica del Buddhismo di Nichiren Daishonin - di interrompere il viaggio verso il basso che avevo iniziato esattamente un anno prima. Ma, affascinato dalle prospettive di esperienze fuori dall’usuale offerte dalla direzione deviante che avevo preso, e non potendo andare contemporaneamente in due direzioni opposte, avevo scelto per interrompere il cammino spirituale iniziato insieme ad altri giovani del mio quartiere e della mia città all’interno del movimento della Soka Gakkai. 

Una sera di fine agosto (o primi di settembre), però, mentre mi trovavo al bar del quartiere che costituiva il punto di ritrovo di noi ex frequentatori della casa occupata di piazza dell’Assunta, ho incontrato un amico con il quale avevo praticato nei mesi precedenti, e che era già diventato membro della Soka Gakkai nel 1978. Vedendomi da solo e non proprio messo bene dal punto di vista psicologico e fisico, mi ha chiesto se volevo andare con lui in una birreria sui Navigli. Arrivati là, mentre parlavamo davanti a due boccali della mia situazione, lui mi ha detto: “Se vuoi cambiare vita, l’unico modo è tornare a praticare”. Io non mi sono affatto messo sulla difensiva; anzi, gli ho risposto che avrei seguito il suo consiglio. Dal giorno dopo ho ricominciato a recitare sia da solo sia a casa sua, alla mattina, sia a casa di un altro nostro amico, nel tardo pomeriggio. Il ragazzo che mi aveva convinto a riprendere la pratica non abitava lontano in linea d’aria da casa mia, ma per arrivare a casa sua si doveva passare su un fiumiciattolo (la roggia Vettabbia) camminando in equilibrio su un tubo. Lui, appena si alzava la mattina, mi telefonava (allora esistevano solo i telefoni fissi), e quindi io uscivo di casa, camminavo qualche centinaio di metri fino al tubo, superavo la Vettabbia ed arrivavo subito alla sua abitazione. Poi, durante il giorno, non uscivo da casa mia fino al tardo pomeriggio, quando arrivava l’ora di raggiungere tutti gli altri nell’appartamento in via Ripamonti dell’altro nostro amico per recitare tutti insieme. Dopocena, infine, mi recavo al solito bar del quartiere da dove, quasi sempre, partivamo per andare a casa di un altro nostro compagno di fede che abitava in zona Maciachini. 

Da allora non ho quasi mai più saltato le preghiere del mattino e della sera e tutte le riunioni che venivano organizzate a livello di Milano o di Nord Italia.



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