Autobiografia da adulto - Cap. 4 - Lavoro, studio e attività

 Lunedì 3 settembre 1980 ho fatto il vero debutto nel mondo del lavoro, dopo l’esperienza di alcune settimane nell’estate 1974, quando insieme ad alcuni amici avevamo lavorato in una tipografia del nostro quartiere alla periferia sud di Milano, pagati in nero mille lire l’ora. In quell’occasione avevo svolto compiti da operaio come inscatolamento di materiale stampato, spostamento di bancali nel magazzino, carico e scarico di camion.

Per ironia della sorte, questa volta tornavo nel mondo dell’editoria in un’azienda che si serviva di tipografie. E, già nei primi giorni, dovendo svolgere un ruolo di “jolly”, oltre a scrivere qualche notizia, fare qualche intervista, effettuare ricerche iconografiche - compiti comunque redazionali - ho iniziato anche a tenere rapporti con i fornitori: grafico impaginatore, fotocomposizione, fotolito e stampatore. Mansioni che mi piacevano, anche perché mi permettevano di passare del tempo in luoghi di lavoro diversi, con persone con cui riuscivo a stringere rapporti di amicizia e da cui imparavo cose nuove e interessanti che servivano a rendere effettivamente fruibile ai lettori il lavoro di noi giornalisti. Non ringrazierò mai abbastanza l’opportunità che ho avuto di non dovermi limitare a lavorare in redazione, andare a fare interviste o partecipare a conferenze stampa, ma di poter vedere come si realizzavano le pellicole di foto e testi, come si montavano questa pellicole in pagine per impressionare le lastre, e come, con queste lastre, le macchine litografiche producevano le stampe che poi dovevano essere tagliate e rilegate in legatoria. Dopo sei anni, insomma, sono tornato a sentire l’odore degli inchiostri, dei solventi e della carta in mezzo al quale avevo passato delle giornate nell’estate 1974. E a risentire il rumore delle macchine per la stampa, con in sottofondo i richiami fra gli addetti o le musiche che uscivano da qualche radio o registratore.

In redazione era un’altra cosa. Siccome realizzavano un mensile (Pubblicità Domani) e un settimanale (Pubblico) rivolti agli operatori del mondo pubblicitario (agenzie, uffici pubblicità di aziende, concessionarie di editori e così via), i ritmi erano più tranquilli e si poteva scambiare anche qualche chiacchiera tra una telefonata e l’altra o la scrittura di qualche articolo o una rubrica. Allora usavamo solo macchine per scrivere manuali. A pensarci bene, anche queste facevano un certo rumore, ma più gentile e quasi ipnotico. La sede della casa editrice era situata in un ex grande appartamento al secondo di un palazzo molto vecchio situato in via Revere a Milano, vicino al Parco Sempione. In realtà, nello stesso appartamento, c’erano anche un paio di altre riviste, pubblicate da editori differenti. Una si chiamava Weekend, e ci occupava di località di vacanze e viaggi, e l’altra era Musica Viva, diretta da Lorenzo Arruga, un famoso critico musicale. Il personale della nostra casa editrice non era numerosissimo: poco più di una decina di persone fra direttore, direttore editoriale, redattori, commerciali e amministrativi. Io, insieme alle ragazze della contabilità e la centralinista (che avevano fra i 16 e i 20 anni), ero uno dei più giovani: non ancora ventunenne. Ma anche gli altri, fatta salva la signora che si occupava degli abbonamenti, avevano fra i trenta e i quarant’anni. La maggior parte di noi fumava (io compreso). Allora non c’erano ancora leggi antifumo negli uffici. La maggior parte di chi non fumava non si lamentava. Ci si avvelenava, quindi, allegramente, di fumo attivo e passivo. Però devo dire che non ho sentito di nessuno dei miei ex colleghi che si siano ammalati di cancro a polmoni. Detto questo, oggi è giusto che non si fumi più negli uffici.

Al lavoro andavo il pomeriggio. La mattina, a partire da novembre, avevo iniziato a frequentare le lezioni del primo anno di Lettere Moderne all’Università Statale, in via Festa del Perdono. Poi mangiavo alla mensa e quindi, raggiunta a piedi piazza del Duomo, da qui prendevo l’autobus 60 fino a Largo Quinto Alpini, su cui terminava la via Revere. Poche decine di metri ed entravo nel vecchio portone del palazzo. Nel tardo pomeriggio, spesso uscivo prima delle 18.30 concordate come fine giornata lavorativa, per passare dalla fotocomposizione o dalla tipografia. Fra le mie mansioni, fra l’altro, oltre a quelle strettamente giornalistiche o di collegamento con fornitori e collaboratori esterni, vi erano allora anche la correzione di bozze. Un’esperienza, questa, che mi è stata utilissima, almeno per tre motivi: per perfezionare la mia conoscenza dell’ortografia e della grammatica; per apprezzare i diversi stili di scrittura di altri giornalisti, e quindi acquisire maggiore consapevolezza delle peculiarità del mio; e per farmi una cultura più ampia possibile delle tematiche di cui ci occupavamo. Cultura che poi mi veniva utile quando dovevo essere io a effettuare interviste e scrivere articoli. 

Dopo gli ultimi lavori in redazione, o le ultime commissioni presso qualche fornitore, non rientravo quasi mai subito a casa: quasi tutti i pomeriggi si concludevano con qualche attività legata alla pratica buddhista nella Soka Gakkai. Nei primi mesi del 1981, inoltre, mi era stata affidata la corresponsabilità di uno dei gruppi in cui erano stati suddivisi i praticanti di Milano. In ogni caso, se non avevo una riunione con questo gruppo, o non dovevo andare a trovare qualche suo membro, una volta rientrato nel mio quartiere Vigentino mi ritrovavo a recitare Gongyo (la nostra pratica mattutina e serale) con le persone con cui avevo iniziato a praticare. Poi andavo a cena a casa e quindi uscivo nuovamente con i membri e amici del quartiere per andare a bere sui Navigli o a visitare qualcuno. Non si può dire - anche se non praticavo alcuno sport - che non facessi una vita movimentata.

Autobiografia da adulto - Cap. 3 - Avvio al lavoro

Intorno alla primavera del 1980, ormai le mie routine di vita erano completamente cambiate rispetto a quelle degli ultimi anni Settanta. Vivevo ancora in famiglia, con i miei genitori e i miei fratelli (un fratello e una sorella più giovani di me), ma passavo la maggior parte delle mie giornate e serate fuori casa. Le lezioni universitarie alla facoltà di Fisica (Università Statale di Milano) che frequentavo (ero iscritto al primo anno di corso) si tenevano tutte il pomeriggio. Così, la mattina mi potevo alzare con comodità intorno alle nove, quindi, dopo colazione, recitavo Gongyo (le preghiere del Buddhismo di Nichiren Daishonin che avevo abbracciato l’anno precedente) e poi ripassavo le materie che stavo seguendo.

Dopo un pranzo veloce, con l’autobus 95, preso in via Quaranta, e quindi il filobus 93, che partiva da piazza Gabrio Rosa, raggiungevo l’università, sita in via Celoria. Al termine delle lezioni tornavo nel mio quartiere Vigentino, dove tutti tardi pomeriggi, alle 18.30, noi buddhisti della zona ci trovavamo per fare insieme Gongyo sera, guidati da un nostro amico che ci aveva tutti introdotti a questa religione negli ultimi anni Settanta. E la sera? Chi di noi voleva, ci davamo appuntamento allo storico bar Frison, in via Ripamonti, e da lì partivamo per andare, solitamente, a casa di un responsabile buddhista che abitava in via Lancetti, in zona Maciachini. Altre volte andavamo in qualche locale sui Navigli, dove spesso l’amico che ci aveva convertito suonava la con un gruppo blues importante del momento, oppure andavamo ad ascoltare qualche concerto in qualche teatro o parco di Milano o dell’Hinterland. 

Con l’arrivo delle belle giornate, altre volte, ci ritroviamo la sera sulla piazza della chiesa Madonna di Fatima e stavamo lì alcune ore sulle gradinate a suonare e conversare. In quel periodo ho avuto spesso l’occasione di accompagnare, con la mia chitarra, il nostro amico, che era senza dubbio uno dei migliori chitarristi blues del momento a livello italiano. Io suonavo gli accordi e lui cantava e suonava le parti soliste. Ogni tanto mi chiedeva di provare a “svisare”, ma non mi sentivo in grado e quindi continuavo ad accompagnarlo nelle parti ritmiche, ma intanto imparavo ugualmente molto da lui.

Un giorno di primavera, dopo un po’ di tempo che non lo facevo, andai a trovare mio zio materno Miro Cusumano, uno dei più noti pittori astrattisti italiani dell’epoca, a casa sua. Quel pomeriggio c’era anche la moglie Paola Errichelli, autrice teatrale, critica e traduttrice. Con entrambi gli zii, fin da bambini, avevo sviluppato un legame di confidenza e affetto molto forte, anche se potevano anche molti mesi fra i nostri incontri. Con loro potevo parlare di politica, di questioni esistenziali e - soprattutto con Paola - di scrittura e tendenze sociali e culturali del momento. Fin da quando ero preadolescente, lei mi incoraggiava a scrivere e, quando le mostravo qualcosa, se lo portava a casa per leggerlo. Quel pomeriggio parlai a entrambi dell’esperienza buddhista che avevo iniziato da qualche mese, dei benefici che avevo ottenuto praticando questa religione e della possibilità che potesse essere utile anche a loro. Purtroppo, quella fu l’ultima occasione in cui vidi la zia Paola: dopo poco tempo si trasferì a Roma, dove morì nel 1981.

Nei mesi successivi, decisi di andare a trovare e uscire più spesso con lo zio Miro. Lui mi fece conoscere molti amici pittori, scultori, letterati, o comunque intellettuali. Fra quelli che ricordo maggiormente, anche per averli incontrati più spesso, ci sono il poeta Giancarlo Majorino e gli artisti Gianni Brusamolino, Ferdinando Chevrier, Alberto Croce Gianfranco Motton e Carlo Nangeroni. Insieme, questi e altri artisti formavano per me un affascinante e stimolante bohème in cui mi sentivo a mio agio perché, nonostante fossi l’unico ventenne, mi sentivo comunque accolto e trattato da pari a pari, a volte anche con il tipico affetto che le persone più grandi sviluppano per una persona molto più giovane.

Nel frattempo, avvicinandosi l’estate, mi capitò in quei mesi di fare anche alcune brevi gite di due o più giorni, sia con amici buddhisti e non, sia con mio zio. Con alcuni dei primi, andai un paio di volte a Firenze, dove in quel periodo era iniziate una forte propagazione del nostro buddhismo fra i giovani e le loro famiglie. Devo dire che mi trovai molto bene con i ragazzi fiorentini che praticavano come me, tutti calorosi, pieni di interessi, aperti a fare amicizia. Ovviamente, mi affascinò anche la città in quanto tale. Da allora rimasi molto affezionato a Firenze. Un’altra bella gita di quel periodo la fece invece con lo zio Miro. Andammo a Bormio a trovare una famiglia di suoi amici. Lui era architetto e lei insegnante. Avevano anche una bambina di quattro o cinque anni straordinariamente intelligente e simpatica, con la quale mi successe di fare qualche discorso in cui si dimostrava “competente” quasi come un’adulta. In quell’occasione credo che ci fosse anche qualche altra persona amica e, fra le altre cose, mangiammo e bevemmo molto bene.

Nel frattempo, purtroppo, la mia preparazione ai primi esami all’università procedeva a fatica, complici soprattutto le lacune che mi ero portato dietro dagli ultimi due anni di liceo scientifico in analisi matematica e geometria. Ricordo che mio padre, che era direttore di agenzia alla Banca Commerciale, chiese a una insegnante di matematica sua cliente se potesse darmi un aiuto, ma questa rispose che non se la sentiva di fare ripetizione a uno studente universitario (forse perché ormai alcune parti che si imparano solo all’università non se le ricordava più bene). 

Sentendo che alcuni miei amici del quartiere avevano iniziato a fare lavori di tre mesi come autisti delle guardie mediche della Croce Rossa, verso luglio decisi di provare anch’io a fare questa esperienza invece di passare tutta l’estate in vacanza. Così avrei anche guadagnato qualche cosa, per non dipendere finanziariamente solo dalla famiglia. Al colloquio in una sede della Croce Rossa in zona Sempione non andò tutto liscio. Il selezionatore mi chiese di indicarmi via Novara su una grande cartina di Milano appesa a una parete. Io ero convinto di conoscere molto bene la città, perché durante l’adolescenza avevo sempre girato molto fra i vari quartieri, ma per rispondere riuscii a indicare solo la zona dove ricordavo che si trovasse la via, ma non il punto preciso. Me ne andai senza sapere se il colloquio fosse andato bene, perché mi dissero che mi avrebbero fatto sapere successivamente l’esito. Dopo qualche giorno, quando ormai pensavo che non mi avrebbero preso, mi chiamarono per dirmi che, di lì ad alcuni giorni o poche settimane (non ricordo bene) avrei preso servizio.

In attesa di iniziare a lavorare, però, un giorno di luglio mio zio Miro mi portò nella sede di una casa editrice fondata da alcuni suoi amici e che cercava un ragazzo in grado di svolgere alcune mansioni redazionali, dallo scrivere qualche articolo a cercare foto, andare in tipografia a portare pezzi da comporre e così via. Arrivati in redazione, io e mio zio entrammo nella stanza del direttore, che aveva più o meno la stessa età di mio zio e che si dimostrò subito molto affabile. Anzi, devo dire che rimasi molto affascinato dal carisma e dalla simpatia che emanava. Dopo un colloquio di una ventina di minuti, mi disse che avrei potuto iniziare a lavorare agli inizi di settembre, mezza giornata, da lunedì a venerdì. In questo modo avrei potuto anche continuare a frequentare l’università.

Nei giorni seguenti, presi due importanti decisioni. La prima fu, visto che non ero più convinto di continuare a frequentare Fisica (l’avevo scelta più per interesse filosofico che veramente scientifico), di iscrivermi a Lettere Moderne, che ritenevo anche più affine con il nuovo tipo di lavoro - il giornalismo, e l’editoria in generale - che mi era stato offerto; la seconda, quella di comunicare alla Croce Rossa che non avrei più preso servizio (peraltro non avevo ancora firmato un contratto). Scelsi invece di andare, forse per l’ultima volta, a trascorrere le vacanze estive con la famiglia nel campeggio di Ballabio, in Valsassina. In questo modo avrei potuto stare qualche settimana con gli amici che mi ero fatto lì negli ultimi anni, e che negli anni a venire avrei visto molto meno. 

Prima della vacanza in Valsassina, comunque, era previsto anche un corso estivo del nostro buddhismo all’hotel La Torre di Trevi, in Umbria. Come la maggior parte dei giovani, anch’io fui coinvolto nello staff dei soka-han (maschi) e delle byakuren (femmine). Il suo compito era quello di garantire che tutto si svolgesse in modo fluido e nella massima sicurezza. Noi soka-han facevamo dei giri di controllo all’interno dell’hotel di notte, e con le byakuren, durante il giorno, dovevamo indirizzare le persone verso l’auditorium dove si svolgevano le riunioni principali e assicurarci che ci fosse tutto quanto fosse necessario per lo svolgimento dei meeting. Era un’attività che ci permetteva di seguire il corso, ma nello stesso tempo dedicare quel momento della nostra vita a sostenere le persone e proteggere l’attività. Inoltre ci avrebbe consentito di stabilire forti legami fra di noi, anche se venivano da città diverse.

Dopo il corso a Trevi, la vacanza in campeggio in Valsassina fu molto lunga e bellissima. Nei primi giorni, ebbi più volte l’occasione di raccontare ai miei amici della mia pratica buddhista e dell’esperienza del corso in Umbria. Facemmo spesso escursioni sui monti intorno alla Valsassina. Passammo anche lunghi pomeriggi nel campeggio stesso, durante i quali, quasi sempre, suonavo e cantavo tutto il mio repertorio di canzoni di cantautori italiani o di artisti e gruppi pop internazionali. Nel gruppo di amici, c’era sempre la ragazza con la quale c’era una storia più platonica che fisica nel vero senso della parola, ma della quale ero molto “cotto”. Una storia che iniziava e finiva sempre con l’inizio e la fine della vacanza.





Autobiografia da adulto - Cap. 11 - Idoneo alle armi

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