Autobiografia da adulto - Cap. 8 - Effetti giudiziari

 Insomma, il triennio dal 1981 al 1983, è stato un periodo di costruzione e ridiscussione continua del mio essere. Al 1981 ho già dedicato due capitolo: uno in cui mi sono soffermato soprattutto sul progresso della mia pratica buddista all'interno della Soka Gakkai, alla visita in Italia del presidente Ikeda, al viaggio estivo in Olanda Inghilterra e Scozia, e l'altro sull'evoluzione del mio rapporto con la sessualità. Concludo una prima (magari ci ritornerò in futuro) rievocazione di quell'anno, corrispondente al mio raggiungimento del ventunesimo anno di vita (a 21 anni una volta si diventava maggiorenni, sono tre settenni eccetera). Nei prossimi capitoli tornerò su fatti che probabilmente potrebbero risalire sempre al 1981, oppure essere avvenuti nel successivo (1982) e in quello ancora seguente (1983). Ritengo che fra questi anni via siano molte continuità, mentre la vera cesura avverrà nel 1984 con il servizio militare.

Più o meno a metà nella seconda metà del 1981, dopo la visita del presidente Ikeda (ma non sono sicuro se prima o dopo l'estate), succede che a casa mia arriva una lettera di un avvocato. La riceve mia madre, che essendo casalinga, era a casa quando arrivò. L'avvocato scriveva di essere stato nominato mio difensore di ufficio in un processo che mi vedeva imputato, insieme ad altre undici persone, per fatti avvenuti all'interno del liceo scientifico Einstein di Milano nel 1978. Le accuse erano tre: interruzione di pubblico ufficio, occupazione abusiva e porto d'armi improprie. Risulterà - secondo quanto mi fu detto da non ricordo più chi - stralciata (e poi probabilmente archiviata) quella di porto d'armi da guerra. Sembrò evidente che per queste ultime si intendevano non mitra o cannoni, ma bottiglie Molotov. Nel 1978 io avrei compiuto questi reati insieme ad altre persone non più da studente dell'Einstein (che avevo lasciato alla fine del 1976, per trasferirmi al Sesto Liceo Scientifico Donatelli di viale Campania), ma da esterno.

Almeno una delle altre persone coinvolte era un ex studente dell'istituto tecnico commerciale (allora ragioneria) Verri di Milano, situato nello stesso isolato e costruito insieme all'Einstein. Gli altri erano militanti (o ex) del Comitato Antifascista (CAF) Vittoria; organizzazione che negli anni Settanta - quando l'avevo conosciuta io - aveva sede in via Arconati, ma che, nell'anno di cui sto parlando, si trovava in via Cadore.

Un po' giorni dopo l'arrivo della lettera, fui chiamato da uno dei capi del CAF per incontrarmi con lui alla sede di via Cadore. Io mi ricordavo bene di questa persona, di forse cinque anni (o qualcosa di più) più grande di me, e ne avevo una grande stima. Lui mi disse che insieme ad altri imputati avevano deciso di non utilizzare l'avvocato d'ufficio proposto dal Tribunale ma di rivolgersi a un altro (mi sembra un avvocatessa) che aveva già esperienza nella difesa di militanti di sinistra. Io gli dissi che la mia famiglia aveva deciso di rivolgersi ad un altro avvocato di fiducia, che aveva trovato mio padre e che mi sembra fosse vicino al movimento di Comunione e Liberazione (questo non lo dissi al mio interlocutore, viste le posizioni distanti fra il suo, e anche mio ex, movimento e CL). 

Il compagno cercò di convincermi a seguire la strada scelta da lui e dagli altri, che avrebbe anche garantito una coerenza di linea difensiva, ma io dovetti dirgli che preferivo rispettare la scelta della mia famiglia. Che, peraltro, mi sembrava poter portare a migliori risultati processuali. Mi sembra che il costo del mio avvocato fosse (pagava mio padre, perché ancora non guadagnavo molto) di 400 mila lire, mentre quello dell'avvocato scelto dagli altri undici coimputati sarebbe stato - diviso fra tutti - inferiore. Andando via dell'incontro non potei non sentirmi un po' in colpa per due motivi: il primo era che non ero stato solidale con gli altri; il secondo era che mi sembrava di beneficiare, borghesemente, di una situazione economica favorevole. Fu una delle prime volte che credo di aver preso delle decisioni che mi avrebbero, probabilmente, alienato delle amicizie e fatto apparire egoista.

Tornando ai fatti contestati dall'accusa, io ero sicuro di aver partecipato, negli anni successivi al mio allontanamento dall'Einstein (fu infatti così: io non volevo andarmene, ma fu consigliato caldamente ai miei di trasferirmi in un altro liceo per non avere grane... e come si vede non bastò), a una incursione nel liceo come quella oggetto del processo, ma non ero sicuro che si trattasse proprio di quella, a seguito della quale, ero stato denunciato. E se la denuncia fosse stata presentata in conseguenza di un altro fatto simile, ma in cui io non ero coinvolto, ma chi mi aveva denunciato, sbagliando, pensava di avermi visto? 

Siccome in quel periodo io ancora andavo a lavorare in redazione la mattina, perché ancora frequentavo lezioni del primo anno di Lettere all'Università Statale, decisi, uno o due volte, di andare alla biblioteca comunale di via Sormani a cercare, su quotidiani dell'epoca dei fatti contestati, informazioni su questi ultimi. Non ne trovai e, nel frattempo, confermai a me stesso che sicuramente ero stato protagonista di un evento della stessa natura di quello che aveva dato origine al processo, ma che, visto che non mi ricordavo esattamente di aver partecipato a quest'ultimo, non mi sarei di certo autoaccusato (né avrei rivelato che avevo compiuto gli stessi reati forse in un'altra occasione).

Nei giorni successivi, con l'avvicinarsi della prima udienza (in totale furono tre), parlai con altre persone di quanto stava avvenendo. Il primo fu ovviamente l'avvocato di fiducia incaricato dai miei, il quale mi suggerì di dire: "Sì, quella mattina ero fuori dall'Einstein, ma perché avevo appuntamento con una mia amica con cui volevo mettermi insieme (o ero già insieme, ndr). Però non sono entrato nella scuola". In pratica ammettevo la mia presenza presso il mio vecchio liceo la mattina dei fatti, ma negavo il coinvolgimento nell'incursione e avrei così fatto supporre che mi i miei accusatori, vedendomi fuori dall'edificio, avessero pensato che poi vi fossi anche entrato". Io non ero molto convinto di questa linea difensiva; temevo che, alla fine, la memoria di aver compiuto effettivamente gli stessi reati che mi venivano contestati forse in un altra occasione (ma in realtà anch'io ero propenso a pensare che fosse quella volta), mi avrebbe tradito, unendosi a un senso di colpa per quanto avevo comunque compiuto. Però dissi al mio legale che avrei seguito tale linea.

Sempre in quei giorni, siccome avrei dovuto assentarmi dal lavoro, dissi alla persona che il mio editore e il mio direttore avevano incaricato, a tempo pieno, di coordinare la rivista con il mio aiuto part time, il motivo per cui avrei avuto bisogno di qualche permesso di assenza. Lui si dimostrò molto comprensivo, anzi solidale (per non dire complice, con affettuosità), e mi disse: "Non preoccuparti, ti copro io le spalle". La persona che mi aveva introdotto al buddhismo (si dice " fare shakubuku"), invece, mi disse: "Cerca le persone che ti hanno denunciato o che testimonieranno contro di te. Dì loro che sei dispiaciuto di quanto è successo, che sei cambiato. E vedrai che, recitando (la nostra forma di preghiera, ndr.) per superare questa difficoltà, andrà tutto bene". Io però decisi sì di recitare per affrontare neglio questa difficoltà che si presentava nella mia vità, come retribuzione karmica, a qualche anno di distanza, ma non di cercare i miei accusatori e scusarmi con loro.

Ebbene, al termine della terza e ultima udienza, in cui come in quelle precedenti erano venuti ad assistere i miei genitori e le sue sorelle (non so dire se solo per interesse famigliare o anche per dare l'impressione che eravamo una famiglia per bene), fui interrogato dal pretore (non erano reati per i quali fosse necessaria la presenza di tre giudici; bastava uno solo monocratico). Lui mi chiese subito: "Lei quella mattina è entrato nella scuola e ha compiuto i fatti di cui si sta parlando". Io restai pochi secondi zitto, pensando, e poi risposi: "Non ricordo". intanto guardai il mio avvocato e vidi che scuoteva la testa in segno di disappunto, perché non stavo seguendo la linea di difesa concordata. Allora il pretore tornò alla carica: "Non può dire non ricordo. Deve ammettere o negare". Quindi io: "Allora nego". L'interrogatorio finì così.

La mia nuova linea si rivelò vincente. Infatti, poco dopo il pretore chiamò a testimoniare, a mio carico,  un ex studente di un anno o due più di me, che negli anni in cui andavo all'Einstein era il leader degli studenti che si opponevano all'attività dei militanti di sinistra consistente nel deviare l'attività scolastica da quella che, secondo loro, le gerarchie scolastiche, e la maggior parte dei genitori, dovesse essere: studiare e basta: niente scioperi, picchetti, autogestioni o cose del genere. Con lui infatti, avevo avuto solo cattivi rapporti. Ero sicuro anche che fosse stato lui l'autore del testo di un volantino che, quando ero in prima o seconda, era stato distribuito a firma Studenti Indipendenti, per contestare comportamenti degli studenti di sinistra contrari, secondo loro, al diritto degli altri di partecipare alle normali attività didattiche. In quel volantino c'era una frase in cui, in minuscolo, era utilizzata la parola "cervelli" che, era evidente a tutti, suggeriva me ("cervelli che pensano male e agiscono peggio".

Il mio ex compagno di scuola, interrogato dal giudice, quando gli fu fatto il mio nome, disse: "Cervelli non c'era. Lo conoscevo e mi ricorderei di averlo visto". Quindi il pretore gli chiese: "Quindi non c'era?". Come mia somma sorpresa il testimone rispose: "No, per me non c'era". Quando venne la volta del mio ex preside, Enrico Giorgiacodis", anche a lui il magistrato fece la stessa domanda rivolta all'ex compagno di scuola. Il preside rispose: "Cervelli era un mio alunno. Me lo ricordo bene. Se ci fosse stato quella mattina me lo ricorderei". Quando il pretore gli fece notare che sotto la denuncia c'era la sua firma, il professore Giorgiacodis disse: "Ma tanta acqua è passata sotto i ponti da allora". Al che, se non ricordo male, il giudice lo liquidò con un rimprovero per aver sottoscritto una denuncia che poteva comunque ledere una persona. 

Non infierì però così forte come, invece, fece nei confronti dell'ex presidente dell'associazione dei genitori Libera, che era apertamente contraria a ogni forma di attività politica all'interno della scuola, rappresentava soprattutto genitori con tendenze di destra. Il suo presidente, A.M., era diventato un'istituzione all'Einstein. Da parte di noi studenti di sinistra si pensava che fosse dominante anche nei confronti dello stesso preside. Di certo lo sosteneva, se non addirittura sobillava. E mentre Giorgiacodis, in quelle poche occasioni in cui avevo potuto parlare direttamente con lui in presidenza, mostrava una certa stima nei miei confronti (cosa di cui non mi dimenticherò mai), e una volta mi disse addirittura che io avrei apprezzato la lettura degli Annali di Tacito, A.M. ostentava decisamente antipatia nei miei confronti. Sentimento ricambiato. 

Tornando al processo, il giudice gli chiese perché aveva chiesto al preside di presentare la denuncia sui fatti di quel giorno, e si soffermò sul mio nome. A.M. , se non ricordo male, prima mi accusò e poi cadde in contraddizione. E forse anche lui tentò di ridimensionare la gravità dei fatti. Ricordo precisamente che il pretore lo rimproverò molto e che lui aveva una faccia umiliata e, come si suol dire, dovette ritornare al suo posto con la coda fra le gambe. Alla fine, su dodici imputati, io, l'unico ex studente del liceo teatro dei fatti, fui l'unico a essere assolto con formula piena, un altro paio o tre furono assolti per insufficienza di prove, e gli altri furono condannati con pene di alcuni mesi con beneficio di sospensione condizionale.

Io nel 1978
Io nel 1978


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