Autobiografia giovanile - Cap. 18 - Jeunes filles en fleur

 Autobiografia - Cap. 18 - Jeunes filles en fleurDopo il ritorno da Cogne, prima vacanza in campeggio dal 1964, nell’autunno 1970 ho iniziato la classe quinta nella nuova scuola elementare del quartiere Vigentino, cioè quella intitolata al compositore italiano Ermanno Wolf-Ferrari, situata nell’omonima via. Colgo l’occasione per segnalare che diverse vie su cui stati edificati i nuovi condomini della zona Vigentino nella seconda metà degli anni Sessanta (dando vita al quartiere Fatima), sono stati intitolati a compositori. Lo stesso vale per la strada dove abitavo (via Pick Mangiagalli) e quella più lunga subito attaccata (via Chopin).

Si è compiuto così il “tradimento” della scuola elementare di via Noto, e per me il passaggio a una terza diversa scuola elementare, dopo quella di via Scrosati (zona Lorenteggio) e via Noto (vecchio Vigentino). Del resto, per i miei genitori si è trattato di una scelta razionale, perché per arrivare da casa alla scuola Wolf Ferrari erano sufficienti cinque minuti e l’attraversamento di una sola strada. Per di più l’uscita della scuola era anche visibile dal balcone davanti del nostro appartamento.


scuole Wolf Ferrari primi anni 70
Foto scattata da mio nonno da una finestra di casa sua. In primo piano l'asilo e dietro la scuola elementare di via Wolf Ferrari. Più dietro ancora la chieda Madonna di Fatima. A sinistra la fila di case davanti condominio in cui vivevo (la via interna è via Pick Mangiagalli)

Il mio migliore amico, abitante nel mio condominio e compagno di classe in via Noto, è rimasto nella vecchia scuola a concludere il ciclo scolastico. In ogni caso ci vedevamo lo stesso tutti i pomeriggi e i week-end. Un altro nostro amico, coetaneo e condomino, che in via Noto era nella nostra stessa classe, ha cambiato anche lui e me lo sono ritrovato in classe. Per la prima volta mi sono ritrovato come compagno di classe un altro nostro amico, coetaneo e condomino che, alla scuola di via Noto, era con una maestra diversa. Un’altra novità seguita al cambiamento di scuola è che per la prima (e resterà l’unica) volta ci siamo ritrovati un maestro: il mitico maestro Rezzaghi, che già in via Noto insegnava soprattutto in classi quarte e quinte. Credo di aver provato un po’ di orgoglio, quindi, ad avere il maestro Rezzaghi, perché, dato che lo avevamo sempre visto insegnare nelle classi degli ultimi anni, essere suoi alunni mi faceva già sentire un po’ più grande. Giusto come ci si doveva sentire a meno un anno dalle scuole medie.

Nella nuova classe, quindi, ci siamo trovati rimescolati con altri bambini provenienti dalla scuola di via Noto (e forse non solo), che però stavano in classi diverse. Non è stata una novità, invece, quella di ritrovarci comunque tutti in una classe maschile. Per noi che in via Noto avevamo avuto come maestra la signora Maria Gidino, che soffriva di una claudicanza, è stata anche la prima volta (esclusa la prima elementare, per chi come me l’aveva fatta in un altro quartiere) che andavamo in palestra nell’ora di educazione fisica. A farci fare gli esercizi era sempre il maestro Rezzaghi. Ricordo ancora noi con la casacca nera che iniziavamo a scaldarci correndo in circolo lungo i muri della palestra e poi ci impegnavamo con salti del cavallo (cavallina) da ginnastica, sulle spalliere o ad arrampicarsi su funi e pertiche. Sicuramente non ero uno dei più bravi in queste cose, nonostante frequentassi i corsi di scherma in via Cerva.

Il maestro Rezzaghi non era giovanissimo; direi che poteva avere sui cinquant’anni. Mi sembra che fosse competente e stimolante nell’insegnare le materie e sapeva come essere spiritoso o severo, con ironia. Ogni tanto faceva la rivista unghie. Ognuno esponeva le mani e controllava la loro igiene. Quando lo faceva teneva in mano un piccolo righello. Una volta che mi ha trovato con le unghie sporche, mi ha detto: “E queste sarebbero le mani di un pianista?”, e poi mi ha battuto leggerissimamente le dita con il righello.

Del maestro Rezzaghi mi è rimasta impressa anche un'altra situazione. Un giorno richiamò la nostra attenzione e ci disse che a scuola era arrivata la comunicazione circa la possibilità di partecipare a un provino per accedere a una scuola di danza. Nel dircelo ci guardava con uno sguardo che dimostrava già l'attesa di un accoglienza ilare della proposta. Come infatti fu. Ricordo che ci disse: "Guardate che la danza non è una solo per le femmine". Ma non insistette a farci considerare seriamente l'opportunità di partecipare al provino. 

In quell’epoca, la compagnia dei bambini del cortile e della via Pick Mangiagalli iniziava un po’ a cambiare. In cortile non andavamo più perché ormai lo avevamo lasciato ai bambini più piccoli. Noi della terza infanzia e preadolescenza preferivamo la strada o il campetto, situato sul limitare nord del condominio e praticamente di fronte alla scuola elementare. Questo era stato anche ripianato, ripulito dalle erbacce e circondato da una rete. Lì ci giocavamo a pallone o stavamo seduti alla base della grandissima e vecchia pianta. Quando giocavamo a calcio, io stavo sempre in difesa, perché non amavo tanto questo sport, non mi ci impegnavo, ed ero quindi anche un po’ impacciato. Come ho già scritto in altri capitoli, ero più di tutto interessato di elettronica e di chimica, biologia, minerali etc. Prima della vacanza estiva in campeggio a Cogne, i miei nonni materni erano andati a passare qualche settimana ad Alassio e si erano portati dietro mia sorella Annarita, di 5 anni. Io avevo chiesto a lei di portarmi dal mare una boccetta con dell’acqua marina e un sacchetto di sabbia. L’unica volta che ero stato al mare era stato tre anni prima in colonia e non sapevo ancora quando ci sarei tornato. Volevo l’acqua e la sabbia per analizzarli con il microscopio che avevo avuto in regalo in qualche recente occasione.

La mia classe di quinta elementare. In piedi a destra il maestro Rezzaghi. Ho visto anche foto di classe con lui, in cui si trovava nella stessa posizione e con lo sguardo sempre nella stessa direzione. 


Più del pallone amavo la bicicletta, che adesso era un bici da cross Legnano verde con tre marce. La maggior parte dei miei amici aveva la stessa marca di bici da cross senza marce, ma forse più adatta a saltare e compiere evoluzioni. La mia Legnano era adatta agli sterrati, (grazie ai pneumatici larghi e con il grip), e ad affrontare qualche ostacolo o dislivello, ma per via delle marce era più ideale per compiere percorsi lunghi, per il quartiere o per le stradine di campagna. Due miei nuovi compagni di classe abitavano in due diverse cascine: una a Macconago - dove c’era anche un piccolo plesso scolastico che, ai tempi in cui andavo a scuola in via Noto, era ancora funzionante; e spesso per intimorirci le maestre ci dicevano che ci avrebbero mandati lì - e una nella frazione Selvanesco. Con la bici ogni tanto andavo a trovarli dove abitavano e mi piaceva fare un giro dentro le cascine, che mi affascinavano. Spesso, all’inizio del pomeriggio, in attesa di riunirmi con gli altri amici, invece imboccavo la via dell’Assunta, nella parte in cui si immetteva fra i campi, passando a fianco di un cimitero in disuso (in cui spesso entravamo di nascosto a curiosare fra le tombe e le cappelle) e mi recavo fino a una stradina sterrata che si immetteva fra i prati. La stradina si trovava sotto un filare di alberi. Stavo lì un po’ e poi tornavo in quartiere.

La bici da cross, con il suo lungo sedile imbottito, era anche un mezzo che mi permetteva di dare un passaggio ad altri bambini. Fra questi anche bambine, che continuavano ad attrarmi sempre di più, anche se non avevo obiettivi di tipo sessuale. Probabilmente, il fatto di non avere avuto fratelli più grandi e frequentato i loro amici, fino a quel momento mi aveva lasciato piuttosto all’oscuro in materia di conquiste e di avventure erotiche. E non sapevo nemmeno più di tanto i nomi “volgari” delle parti “private” delle persone. Il pene era il “pistolino”, ai genitali femminili non abbinavo forse ancora nessun nome ma solo un’immagine vista finora pochissime volte. E comunque mai di una femmina sviluppata. 

Riccardo Cervelli 10 anni
Io a dieci anni e mezzo


Più o meno in quel periodo, un pomeriggio, mio padre mi chiamò e mi condusse nella camera da letto sua e di mia madre. Chiuse la porta e mi disse che mi doveva spiegare qualcosa. Mi chiese se sapevo come nascevano i bambini. Io dissi di no e lui mi spiegò, mimando le azioni fra noi due, completamente vestiti, che l’uomo e la donna si mettevano uno di fronte all'altra, appoggiavano i loro corpi uno contro l’altro e compivano il “coito”. Non parlò esplicitamente di organi sessuali e di penetrazione. E non disse neanche che quell’atto veniva compiuto - almeno nella maggior parte dei casi - da sdraiati e non in piedi. Ora, non ricordo più se di queste cose ero già venuto a conoscenza di altri coetanei. Forse fino a quel momento non mi ero nemmeno interessato più di tanto a come avvenisse il concepimento dei bambini. Fatto sta che compresi vagamente quello che mio padre voleva farmi intendere e non posi nessuna domanda di approfondimento. Il tutto durò pochi minuti e poi ognuno tornò ai fatti suoi ed io non pensai più di tanto all’episodio.

Però, come dicevo, qualche sensazione nuova iniziavo a provarla nei confronti di alcune bambine. Quando ho letto il romanzo A l'ombre des jeunes filles en fleurs di Marcel Proust mi sono ritrovato spesso in alcune situazioni e identificato con il ragazzino Marce.. Con alcune ragazzine iniziavo ad avere colloqui esclusivi e che potevano durare anche a lungo. Con la ragazzina di tre anni più grande di me parlavo molto di tanti argomenti come l’amicizia o gli interessi personali. Trovavamo molto affinità fra noi. Non so come, ma un certo momento conobbi una ragazzina che viveva in fondo a via Chopin e di cui non ricordo né il nome né per quanto tempo abbia vissuto lì, perché a un certo punto ne persi le tracce. Poteva avere la mia età o uno o due anni meno. Era alta quasi come me, era longilinea, aveva la carnagione scura, tanto che pensavo che fosse sempre abbronzata o che, dopo l’estate, le rimanesse l’abbronzatura a lungo. Probabilmente aveva origini meridionali. Aveva i capelli abbastanza corti ed era estroversa. Non ci frequentavamo, però ricordo che qualche volta l’ho accompagnata con la bici da scuola a casa sua. Sentirla seduta dietro di me, con il suo busto appoggiato alla mia schiena, e con la sua testa vicina alla mia per parlarmi, mi fece venire per la prima volta quella bellissima sensazione che si chiama “avere le farfalle nello stomaco”. 

Non so se ispirato da questa conoscenza, ma forse risale a quel periodo l’idea di scrivere un racconto in cui c’erano due bambini, un maschio e una femmina, che con la bicicletta di lui andavano a prestare soccorso a qualche altro bambino che era stato male o aveva avuto un infortunio, come se fossero due paramedici. Nell’epoca in cui scrissi questo abbozzo di romanzetto, ogni tanto venivano a trovarci i miei zii materni Miro Cusumano e Paola Errichelli, giornalista, critica teatrale, appassionata di letteratura, e figlia del giornalista Corrado Maria Errichelli. Con lei parlavo molto e mi faceva sempre molte domande. Quando le dissi che avevo scritto un racconto, mi chieste di prestarglielo perché voleva leggerlo. Poi, per non so quali motivi, deve essersi dimenticata di restituirmelo. 

Ma, come dicevo, sebbene l’erotismo non fosse poi così una faccenda estranea a me, nel senso che come la maggior parte dei bambini lo praticavo da solo, la mia idea di erotismo non comprendeva la possibilità di praticarlo con una ragazza. Non avevo ancora questo tipo di fantasie. Le bambine, o ragazzine, mi piacevano se i loro visi e altre caratteristiche fisiche e psicologiche mi facevano provare belle sensazioni, in alcuni casi estetiche e intellettuali, in altre solo estetiche o solo intellettuali. Ricordo sempre con dolcezza un episodio con una ragazzina coetanea o di un anno più piccola che, dopo qualche anno che già noi abitavamo in via Pick Mangiagalli, era venuta ad abitare nel nostro condominio. Era anche lei abbastanza alta e snella, con un viso molto carino e un carattere affabile. Un pomeriggio eravamo giù nella strada privata con i pattini a rotelle, quelli che oggi si chiamano “quad” per distinguerli da quelli “inline”. Percorremmo da soli, io e lei, più volte avanti e indietro la via parlando di argomenti che non ricordo, ma sicuramente del tipo che possono interessare dei preadolescenti. Da parte mia c’era certamente, lo ricordo, un po’ di attrazione nei suoi confronti, da parte sua non lo so, e probabilmente no. Però mi restò impresso questo momento condiviso in modo esclusivo fra noi, piacevole per lo meno sul piano dell’affettività.

(puntata aggiornata il 02/05/2022)

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


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