Autobiografia giovanile - Cap. 17 - Piano, oratorio, campeggio

 Eccoci al 1970. Il 10 gennaio di quell’anno ho compiuto 10 anni. Sono iniziati gli anni a doppia cifra. In quel periodo stavo frequentando la quarta classe alla scuola elementare di via Noto, Milano, sempre con la maestra Maria Gidino. Sempre classe maschile, quasi quaranta bambini, metà lombardi e metà immigrati dal Meridione, tutti con il grembiule o, più verosimilmente, la casacca nera, che non richiedeva il colletto bianco. A scuola non sono più in difficoltà come lo ero stato in seconda, a causa della provenienza da un’altra scuola di un altro quartiere di Milano, con conseguenti difficoltà ad adattarmi a tanti cambiamenti. A partire dalla terza, al contrario, ero diventato uno fra quelli considerati più bravi. Continuavo a essere, comunque, estroverso e vivace. Alcuni anni più tardi, in una lettera che ancora conservo, la maestra Gidino mi ha scritto che con le mie “arguzie facevo ridere tutta la classe”. E quando, negli anni delle superiori, ogni tanto andavo a trovarla in classe con il mio migliore amico, lei faceva mettere sull’attenti i bambini e ci presentava come “due dei miei migliori alunni”.

In quel periodo, oltre a frequentare con mio fratello un corso di scherma (fioretto) alla palestra di via Cerva, ho iniziato anche a prendere lezioni di pianoforte da una signora che abitava nel nostro condominio, il cui marito suonava i timpani in un’orchestra importante e che aveva due figli più grandi di me. Devo dire che sicuramente ero portato per suonare e in generale per lo studio della musica, ma ero anche attirato dalla vita libera che noi bambini di quel quartiere di periferia-campagna e di quel periodo storico, potevamo avere finita la scuola e il pranzo. Così, fra compiti, scherma e pianoforte, mi sentivo probabilmente un po’ sovraccarico e non vedevo l’ora di ritrovarmi con gli amici in strada o al campetto incolto attiguo al condominio. E da lì partire per esplorazioni nei boschetti, nei campi o nelle case abbandonate della zona. Oppure scendere con il mio amico coetaneo e compagno di classe, e magari il piccolino che mi dava una mano negli esperimenti, nella cantina che la mamma di un altro nostro amico ci aveva prestato per tenere televisori, radio e altre tecnologie elettroniche in disuso da smontare. O per costruire, secondo un mio progetto dell’epoca post sbarco sulla sulla, un razzo e delle tute spaziali. Per tornare al pianoforte, spesso arrivavo a lezione senza aver fatto gli esercizi di pratica (a casa era arrivato il piano che in passato stava a casa dei miei nonni materni) e di teoria (leggi solfeggio). Per fortuna la maestra di piano si limitava a rimproverarmi un poco e poi, pazientemente, cercavamo di andare avanti. Alla fine della lezione, provavamo sempre un brano un po’ difficile da suonare come saggio finale per i miei genitori.

Per restare al tema spaziale, non ricordo se per il carnevale di quell’anno, o addirittura per quello del 1969, alla festa organizzata in classe mi ero presentato mascherato da astronauta, con una tuta di plastica che, nel giro di pochi minuti, mi aveva fatto sudare tutto. Il casco, poi, sono riuscito a tenerlo su poco. Però ho l’impressione che mi ero molto divertito.

Ma oltre alla scuola e al condominio, fra il 1969 e il 1970 un altro luogo diventò un punto di riferimento fisso della mia vita: l’oratorio parrocchiale nel fine settimana, forse solo la domenica pomeriggio.

Vale la pena dedicare un po’ di spazio alla descrizione del posto. Iniziamo dalla chiesa di S. Maria Assunta, alla quale l’oratorio era annesso. Da quanto risulta prima di tutto da una lapide sulla facciata della chiesa (monumento nazionale) e da una delle fonti che sto utilizzando (“La nostra storia”, a cura della Commissione Cultura della Parrocchia Madonna di Fatima- Milano, documento pubblicato in occasione del cinquantenario dell’inaugurazione della chiesa Madonna di Fatima nel 2012), la chiesa S. Maria Assunta fu edificata nel XVI secondo, in un luogo dove c’era già stata una chiesetta costruita nel XII secolo. La chiesa dell’Assunta subì importanti interventi decorativi e di ampliamento sia nel secolo XVII che in quello XIX. Fino all’inaugurazione della nuova chiesa di Fatima nel 1962, l’Assunta fu la chiesa parrocchiale del Vigentino, che fino al 1923 era un comune in provincia di Milano.

La chiesa dell’Assunta si trovava, e si trova tutt’ora, sull’omonima piazzetta nella parte centro-Nord del quartiere Vigentino. Fino alla grande espansione del quartiere, iniziata nella prima metà del secolo scorso con la costruzione di case e condomini in cui ospitare una quota della popolazione milanese accresciuta con l’immigrazione dal Sud Italia, il Vigentino a Sud e a Ovest della chiesa dell’Assunta era costituito dalla parte finale della via Ripamonti, dove c’erano il capolinea del tram 24 e vecchie case con altrettanto storici negozi, e per il resto da cascine. 


cantiere via Assunta Milano anni '70
Foto scattata da mio nonno dal balcone che dava sulla via dell'Assunta. Esempio di costruzione di nuovi condominii. Dove si vede il cantiere c'era una cascina in cui viveva un nostro compagno delle elementari

Quando la mia famiglia si trasferì a Vigentino nel 1967, e già la chiesa più frequentata era quella moderna dedicata alla Madonna di Fatima (rispetto alla quale il nostro condominio si trovava dietro alla parte posteriore) il complesso della chiesa dell’Assunta, visto dalla piazza omonima era così. Al centro la facciata da cui si accedeva alla navata principale. A destra, si vedeva una costruzione realizzata che conteneva una nuova navata della chiesa, a cui si poteva teoricamente (in realtà non ho mai visto aperto quel portone) dall’esterno. Oggi so che questa navata era stata creata nei primi decenni del Novecento come “chiesa degli uomini” (una volta gli uomini e le donne sedevano in posti separati nelle chiese). Incastonata fra questa navata e il corpo principale e antico della chiesa, sulla destra della facciata principale c’era una casetta con giardino in cui viveva un sacerdote della parrocchia. Alla sinistra della facciata, invece, c’era il cancello dell’oratorio, dietro al quale c’era un cortile lastricato. In fondo al cortile, sulla destra, si trovava una porta che dava accesso direttamente alla chiesa passando sotto il campanile (infatti in quel punto scendevano dal soffitto delle corde per suonare le campane; sempre grande tentazione per noi bambini). Sempre in fondo al cortile, sulla sinistra, c’era invece un’altra porta, da cui si accedeva nel salone dell’oratorio. Invece, se una volta superata la cancellata si girava subito a sinistra, si accedeva a un piccolo vialetto porticato, sul quale si affacciavano dei locali diroccati: era un vecchio asilo delle suore appartenenti all'Ordine della "Congregazione della Divina Provvidenza" di Don Guanella, chiuso nel 1968. Ricordo ancora che per terra, in questi locali, si trovavano vecchi libretti e santini, di cui alcuni raffiguravano Don Guanella. Di fronte all’ex asilo c’era un giardinetto che lo collegava a una vecchia casa rettangolare, a cui si poteva accedere anche da un cancelletto sulla parte sinistra della piazza. Questa, mi fu spiegato, era la casa del parroco Emilio Penatti. Quando riuscii per la prima volta ad accedere a questa costruzione, era diventata disabitata in quanto in quel periodo il parroco era misteriosamente “sparito” dopo che era esploso uno scandalo circa l’utilizzo dei soldi che erano stati necessari per costruire la chiesa di Fatima (ricordo che della vicenda si occuparono anche i giornale, fra cui il settimanale ABC, che ebbi l’occasione di leggere).

Il cuore dell’oratorio era il lungo salone, al termine del quale (lato Est) c’era il palco per il teatrino e lo schermo su cui venivano proiettati dei film. Sulla destra del salone, alcune porte davano accesso a tre stanze, la prima della quali, con le finestre sul cortile, era quella dove delle signore molto gentili e sorridenti, allestivano dei tavolini pieni di dolciumi venduti a prezzo molto basso (caramelle, gomme da masticare, liquirizie etc.). All’inizio delle attività della domenica pomeriggio, un sacerdote della parrocchia incaricato di gestire l’oratorio, Don Francesco Colombini, ci portava, attraverso il passaggio sotto il campanile, nei primi banchi davanti a sinistra della navata della chiesa S. Maria Assunta a recitare delle preghiere. Mi sembra di ricordare che non tutti i bambini - maschi e femmine insieme (almeno questa istituzione, l’oratorio, nel nostro caso era mista) - si comportavano bene in quel momento. Alcuni stavano attenti e pregavano e altri chiacchieravano a bassa voce o facevano degli scherzi. Don Francesco non era allora un prete giovane, anzi era abbastanza avanti negli anni e dall’aspetto severo: magro, alto, con il viso quasi sempre serio. Mi sono sempre chiesto come mai fosse stato scelto lui: forse perché, nonostante le apparenze (almeno a me) amava i bambini ed era in grado di occuparsi della loro catechesi ed educazione; forse perché aveva il polso necessario a gestire una mandria di bambini scalmanati. Se la memoria non mi ha fatto scherzi fin dagli anni successivi, mi ricordo che un pomeriggio, nel cortile, si arrabbiò così tanto con uno o più bambini, dal minacciare di picchiarlo o picchiarli con la cintura dei pantaloni. Mi sembra anche che se la fosse sfilata. Allora, però, non era raro che gli adulti incaricati di curare ed educare i bambini (come dimostra la storia del direttore della colonia dove ero stato a Cesenatico nel 1967), arrivassero a urlare e ad usare dei mezzi correttivi fisici, ovviamente con molti limiti. Eventi che oggi farebbero insorgere molti genitori e portarli addirittura a sporgere delle denunce.

Il fatto che l’oratorio fosse misto per me è stato molto importante, perché ero abituato a passare molte ore in una classe elementare maschile e le poche bambine che conoscevo - a parte le mie sorelle molto più piccole di me - erano le coetanee (anno più o meno) del cortile. Che ormai conoscevo a menadito ed erano sempre le stesse. All’oratorio, invece, ho potuto conoscere altre femmine più grandi e più piccole che abitavano in altri condominii oppure nelle case vecchie - e probabilmente anche cascine - del Vigentino. Molte erano figlie di immigrati dal Meridione e notavo, in alcune, caratteri somatici spiccatamente mediterranei, che mi affascinavano, soprattutto se le bambine erano già ragazzine o quasi. Non so per quale motivo, ma ce n’era di due o tre anni più grande di me, che credo abitasse dall’altro lato della via Ripamonti in una casa di quelle preesistenti all’espansione del quartiere. Era più alta di me, snella, con i capelli lisci, neri, a metà lunghezza, con il colorito della pelle del viso sull’olivastro (non roseo insomma). Era tranquilla ma anche loquace. Non so perché ma quando la pensavo mi veniva in mente la parola “gelato”. Era per me la bambina “con la faccia da gelato”, anche se non esisteva alcun nesso fisiognomico tra un gelato e il suo volto. 

Non so se fu lei, o una sua amica, che durante i due tempi di una proiezione di un film, trovandosi seduta vicino a me, iniziò ad abbracciarmi, a accarezzarmi, a sussurrarmi frasi, e a baciarmi sul viso, e lo fece per tutto il tempo in cui le luci erano spente. Nessun contatto sessuale, sia chiaro (o almeno non ricordo), ma molta frenetica e per me inspiegabile espansività e possessività. Devo dire che io, in famiglia, non ero affatto abituato a ricevere quel tipo di gesti affettuosi. Io, dopo poco, smisi di apprezzare quegli abbracci, sussurri continui nell’orecchio (che non mi permettevano di seguire il film), baci, ma non avevo il coraggio o la forza o il desiderio di sottrarmi. Ero diventato una bambola di proprietà di quella bambina o ragazzina. Di solito, quando finivano i film, iniziavano a scorrere i titoli di coda e si accendevano le luci al neon del salone, noi bambini ci alzavamo urlando e ci buttavamo a spingerci e farci cadere nello spazio fra le panche e il palco del teatrino. Quella volta, invece, quando il film finì e la mia “amante” mi lasciò andare, mi sentii stordito e confuso. E anche sollevato dalla fine di quell’esperienza. Ricordo che per un po’ di tempo, anche durante la settimana quando mi trovavo per le strade del quartiere, avevo il timore di rivedere quella bambina.

Agli inizi dell’estate 1970 ho finito di frequentare la scuola elementare di via Noto, poiché, quell’anno, hanno finito di costruire la scuola elementare di via Wolf Ferrari, a neanche duecento metri da casa mia. 

Riccardo Cervelli 1970 Cogne
Io a Cogne nell'estate 1970 a 10 anni e mezzo

L’estate 1970 è stata la prima, dopo alcuni anni, in cui non siamo più andati in vacanza a Legri, in Toscana. I miei nonni avevano venduto la casa. Così ci siamo organizzati per andare a passare l’estate a Cogne, in Valle d’Aosta. Dal momento che ancora non avevamo acquistato una macchina e nostro padre non aveva la patente, la tenda e le valigie con i vestiti e gli altri suppellettili necessari sono stati spediti al campeggio con un corriere. Qualche giorno dopo noi siamo arrivati ad Aosta in pullman. Credo che abbiamo preso un pullman dell’Autostradale a Milano, poi abbiamo cambiato autobus in un’altra città, forse Santhià. Ad Aosta siamo saliti tutti su un auto a noleggio con conducente (non mi sembrava che fosse un taxi), un grande Mercedes beige guidata da un signore di mezza età molto gentile e discreto. Quindi siamo arrivati al camping, dove abbiamo montato una tenda a casetta blu, che forse era la stessa che avevano utilizzato nel 1964 a La Salle. 

Ricordo che di notte, anche se eravamo in piena estate, faceva molto freddo e bisognava andare a letto nei sacchi a pelo molto coperti, mi sembra addirittura con un cappello di lana. A Cogne e nei dintorni c’erano molto possibilità di escursioni. Spesso andavamo alle cascate di Lillaz, o a piedi fino a Valnontey, da dove si vedeva un panorama mozzafiato del Gran Paradiso. Il proprietario del campeggio e del bar aveva un camion. Qualche volta prendeva su me e mio fratello, ci faceva sedere nel posto del passeggero e ci portava avanti e indietro in qualche paese vicino. Era un camion rumoroso, con il cambio manuale, e non c’erano le cinture di sicurezza.

La prima estate a Cogne ho familiarizzato con gli altri bambini del campeggio, ma non mi ricordo di uno in particolare con cui avessi fatto amicizia, a differenza del secondo anno. Nella tenda a fianco alla nostra c’era una famiglia di torinesi: padre, madre e due maschietti dell’età mia e di mio fratello. Con loro spesso andavamo nella tenda di un ‘altra famiglia - credo anch’essa torinese - che aveva una figlia di circa 13 anni. Con lei avevano fatto amicizia degli altri ragazzi un po’ più grandi di lei, che una volta l’avevano portata a ballare. Ricordo che il giorno dopo, mentre ci trovavamo dentro la tenda, sentii un paio di loro parlare alla ragazza dell’esperienza del ballo e fare delle allusioni alle sue parti intime. Forse ci stavano, o continuavano, a “provarci”, ma inutilmente. Fu la prima volta che sentii una certa parola. Qualche giorno più tardi, seppi che, a causa forse di uno scherzo che uno dei due bambini della tenda vicino alla nostra, aveva fatto alla ragazza più grande di noi, scoppiò una lite fra le due famiglie. Sentii dire che il padre dei due bambini aveva fatto allusione al possesso di una pistola. Forse era un poliziotto in vacanza. Fatto sta che, forse soprattutto per questo fatto, il proprietario del campeggio mandò via questa famiglia e mia madre ci disse di essere dispiaciuta per il fatto che, a causa di un incidente che forse era sfuggito di mano, ci dovessero andare di mezzo i bambini, o la famiglia intera. 

Fu quella una delle prime volte, insieme quella in cui avevo assistito, per qualche minuto, a una rissa fra due uomini (che si rotolavano avvinghiati sull’asfalto in una cittadina di provincia), che mi resi conto che gli adulti potevano farsi del male a vicenda per motivi futili. Un’altra esperienza negativa che ebbi durante quella vacanza fu un incidente stradale davanti al campeggio. Il camping, come ho detto aveva un bar, dove c’era anche un juke box dal quale, fra parentesi, sentii per la prima volta canzoni di Lucio Battisti, che per me sono rimaste associate alle due estati di vacanza a Cogne. In quel bar veniva sempre un signore che alla fine della giornata ne usciva completamente ubriaco. Un pomeriggio, mentre mi trovavo con alcuni bambini nel prato del campeggio all’altezza della strada e del bar, sentii lo stridore di una lunga frenata. Andai verso l’ingresso del campeggio e vidi che alcuni uomini sostenevano il signore ubriaco, che era stato investito da un auto. Subito un ragazzo grande allontanò noi bambini dalla scena. Poi seppi che il ferito era stato subito trasportato con una macchina all’infermeria della miniera di ferro che si trovava sopra Cogno, ma che poi era morto.

Ho citato la miniera. In effetti, una delle cose che mi piacevano di Cogne erano i punti in cui venivano scaricati i detriti degli scavi della miniera. Rovistando fra le pietre, infatti, riuscivo sempre a trovarne alcune con dei cristalli di pirite, che sembravano (ma sapevo che non era così) oro. Salendo a piedi sopra Cogne, nelle vicinanze della miniera, inoltre, era possibile trovare delle stelle alpine. Sapevo già che erano fiori rari e che andavano lasciati lì. Nonostante ciò ne prendevo una o due da portare a Milano come ricordo.

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


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