Autobiografia giovanile - Cap. 40 - Verso l'età adulta

 A metà primavera circa del 1979,interruppi, dopo pochi mesi che avevo iniziato, di praticare il buddismo di Nichiren Daishonin e di frequentare i nuovi amici della Soka Gakkai. Per qualche giorno avevo pensato che avrei potuto continuare pur mantenendo il mio stile di vita sregolato e, sotto certi aspetti, ormai sempre più anche autolesionista. Ma alla fine cedetti e archiviai quell’esperienza come una delle diverse vissute negli anni precedenti. Avevo già smesso, dopo pochi mesi, anche di frequentare la palestra di yoga. Non mi sembrava di fare progressi in quella disciplina: in particolare, quando alla fine dovevamo passare molti minuti sdraiati in uno stato di rilassamento, io non riuscivo a raggiungere questo stato: per lo meno non come avrei voluto. 

Fra i temi che avevo archiviato già nella seconda metà del 1978 c’era la politica. Dopo non più di due o tre cortei, a cui avevo preso parte nella prima metà, portandomi dietro qualcuno degli amici del Collettivo Politico Vigentino (Cpv), che avevo fondato nelle seconda metà del 1977 con l’idea di creare un punto di riferimento dell’area dell’Autonomia anche nel mio quartiere (ma in realtà non fu mai un soggetto politico bensì una compagnia di amici), dalla primavera del 1978 la militanza politica aveva smesso di fare parte del mio bagaglio esperienziale. Non frequentai più il Circolo Giovanile Romana-Vigentina di Corso Lodi. 

Fra la fine del 1978 e l’inizio del 1979, quando ormai gli amici con cui mi vedevo erano nuovamente gli ex-Cpv (dopo che per qualche mese mi avevano emarginato), i nuovi amici del quartiere con cui avevo iniziato a uscire quell’anno, e i miei due nuovi amici fra i compagni di scuola all’Unione Professori, ebbi solo una volta l’occasione di rivedere delle persone del Circolo Giovanile Romana-Vigentina a un concerto di gruppi rock studenteschi che si tenne nell’aula magna del Settimo liceo scientifico. In particolare, nell’atrio dell’aula magna, mentre eravamo entrambi su di giri, fui avvicinato ad uno di questi miei ex compagni di attività politica, che mi rinfacciò di avere smesso di andare alla casa occupata di Corso Lodi 6 in un momento in cui l’impianto elettrico che avevo installato (peraltro, devo avere aggiunto io, con l’intervento decisivo di un altro di loro, che di lavoro faceva l’elettricista) aveva cominciato a saltare spesso. E si lamentò per il fatto che loro si trovavano in varie occasioni a cercare di risolvere queste interruzioni di corrente, che non colpivano solo la loro sede al piano terreno, ma anche gli appartamenti delle famiglie dei piani soprastanti. Trovai questo ragazzo particolarmente arrabbiato con me, il che mi colpì relativamente perché, anche in passato, non era mai stato uno che mi sembrava avermi in simpatia, tranne forse qualche rara occasione. Ma dietro quel parlarmi in tono così esasperato, quella sera mi sembrò esserci anche un malessere psicologico che non c’entrava con me ma che riguardava lui solo. Diversi mesi più tardi mi ritornò, questo mi tornò in mente quando seppi la notizia che quel ragazzo si era suicidato lanciandosi da un terrazzino condominiale a un piano molto alto del palazzo in cui viveva in zona Corvetto.

Fra il 1977 e il 1979, comunque, io ero uno dei tanti adolescenti che si erano avvicinati alla militanza politica, nelle formazioni più estreme, nell’”ultima coda” del ‘68 (così me la definì, qualche anno dopo, un giornalista che poteva essere mio padre) e che poi si erano progressivamente disimpegnati per perseguire stili di vita differenti in cui la ricerca di sensazioni forti, a costo di infrangere limiti imposti dal buon senso comune e dal rispetto della salute, faceva la parte del leone. E questo avveniva tanto a sinistra quanto a destra. Lo posso affermare perché, agli inizi della primavera 1979, più o meno nello stesso periodo in cui stavo ancora sperimentando la pratica del buddismo, mi ritrovai ad aggiungere alla mia cerchia di amicizie anche ragazzi della mia età che, solo fino a un paio d’anni prima, erano stati militanti dell’estrema destra. Giovani con cui, noi dell’altra parte, ci odiavamo e che in qualche occasione avremmo potuto scontrarci fisicamente al punto da causare delle tragedie. Devo però dire che, nonostante io allora mi ritrovassi con persone che ce l’avevano “a morte” con i fascisti, dentro di me non ho mai sentito realmente il desiderio di fare del male a qualcuno per via di idee politicamente opposte. E non ho mai giustificato, per esempio, l’uccisione, nel 1975, di Sergio Ramelli, un giovane di destra di Milano. Il suo omicidio, così come quelli, da parte di neofascisti, dei “compagni” Claudio Varalli (1975) e Gaetano Amoroso (1976; cugino di un mio compagno di classe delle medie), mi sembravano tutti assurdi. 

Ma in quegli anni frequentavo ugualmente chi la pensava in maniera diversa sull’inutilità e l’atrocità di certi atti violenti, perché comunque condividevo con loro altri obiettivi della lotta politica. Il giorno in cui rapirono Aldo Moro, così, durante un’assemblea studentesca straordinaria al Donatelli, intervenni giustificando l’azione delle Brigate Rosse e fui sommerso di fischi. Ma sicuramente, qualche settimana più tardi, non approvai l’uccisione del politico. Su questo punto condivisi il titolo di prima pagina, a caratteri cubitali, dell’edizione del giorno dopo di Lotta Continua (quotidiano che acquistavo quasi tutti i giorni in quel periodo), che condannava senza appello l’omicidio di Moro.

Come iniziai a frequentare degli ex potenziali nemici da combattere? Un sabato pomeriggio della primavera 1979 mi ritrovai con uno dei miei due amici compagni di classe con cui uscivo ogni tanto. Ci trovavamo in Piazza Vetra, allora già in realtà una parte del Parco delle Basiliche, che era un luogo noto per la presenza di spacciatori di droghe di ogni tipo. Io e il mio amico venimmo all’improvviso accerchiati da un gruppo di militanti di estrema sinistra con i fazzoletti rossi a coprire parte della faccia e i classici manici di piccone con un pezzo di stoffa rossa arrotolati a mo’ di bandiera. Fra i primi di loro che notai ci fu una ragazzina apparentemente di prima liceo, ma che poteva dimostrare anche dodici anni. Aveva uno sguardo determinato ma non feroce. Forse mi sembrò come potevo essere io un po’ di anni prima, nel 1975. Lui era in prima fila ma non parlò. Si rivolsero a noi altri più grandi, i quali qualificarono il gruppo come una ronda contro lo spaccio dell’eroina. Io invece dissi che ero un compagno, e feci qualche nome di un gruppo antifascista che avevo frequentato negli anni precedenti e che loro conosceva. Così ci lasciarono andare. 

Dopo un po’ di passi, vidi che il mio amico aveva gli occhi arrossati. Mi disse che era stato fortunato che ci fossi io e che, se ci avessero chiesto di mostrare i nostri documenti, lui forse sarebbe stato picchiato. Mi spiegò che, prima di allora, non mi aveva raccontato del suo passato nel Fronte della Gioventù perché, sapendo che io ero stato un compagno e forse lo ero ancora, non voleva “rovinare la nostra amicizia”. Io gli dissi subito che perché quello che era passato era passato, che noi potevamo essere amici anche se avevamo avuto esperienze diverse. Dopo quell’episodio continuammo il pomeriggio e la sera insieme ad altri suoi amici, tutti “ex fasci”, maschi, della nostra età. Alcuni, come me e il mio amico, erano impegnati a prepararsi per la “matura” (l’esame di maturità). 

Tutti divennero miei amici da quel giorno. Quella sera decidemmo di girare per Milano ammassati nella macchina dei miei (la Opel Kadett familiare). A una certa ora, all’incrocio fra via Ferrari e via Farini, facemmo un piccolo incidente stradale con un’altra macchina. In quel momento scoprii il carattere ancora focoso di alcuni di loro, che collegai anche con il tipo di militanza politica che avevano praticato. Prima di me scesero subito dalla mia macchina e andarono a litigare con il guidatore dell’altra. Quasi certamente aveva torto lui, ma anch’io ero stato piuttosto distratto. Comunque sia, io e l’altro guidatore ci scambiammo i dati e, nei giorni successivi l’assicurazione di mio padre ci mandò i fogli della constatazione amichevole da compilare. I miei nuovi amici si offrirono come testimoni a mio favore pochi giorni dopo ci rivedemmo per firmare tutti insieme il documento. 

Da quel weekend iniziai a trascorrere tutti i fine settimana con quella compagnia, mentre nello stesso periodo smettevo di frequentare i buddisti e di praticare. Ricordo che - memore del “tradimento” della nostra amicizia effettuato nei miei confronti l’anno prima da alcuni dei miei amici ex-Cpv e altri che si erano uniti a noi nel 1978 - un giorno chiesi al mio compagno di classe e amico di dirmi che cosa avevano detto di me i suoi amici. Lui mi disse che erano contenti di avermi conosciuto. Nelle settimane successive anch’io feci conoscere qualche mio amico al mio compagno di classe. Infatti, nei giorni infrasettimanali continuavo a frequentare il bar Frison, dove mantenevo i miei rapporti di amicizia con diversi giri di persone con cui mi uscivo dagli anni precedenti e qualcuno nuovo. Un giorno presentai a questo compagno di scuola anche il mio migliore amico di sempre. Per l’occasione menzionai il fatto che tutti e tre avevamo in comune la passione per l’elettronica. Per la verità io non mi dedicavo più a questo hobby, così come a quello della radio CB. Anzi, un giorno chiesi e ottenni dal mio compagno di scuola che prendesse lui tutti i componenti elettronici che mi erano rimasti, compresi quelli che mi aveva regalato l'ingegnere parente acquisito che, in passato, mi aveva fatto ripetizioni di matematica.

Fra i nuovi amici che mi feci in quei mesi in quartiere, ce ne furono alcuni che negli anni passati erano stati simpatizzanti per l’estrema destra, ma che ora vivevano anche loro una vita sregolata. Un pomeriggio uscimmo insieme io, uno di questi e il mio compagno di classe, che si affezionò alla persona che avevo portato io. Ma poi avemmo poche occasioni di uscire di nuovo tutti insieme. Intanto era riapparso anche quello del quartetto della fine 1976 che, agli inizi del 1978, era rimasto nel gruppo Cpv, o ormai ex-Cpv, e che poi non avevo più visto per lungo tempo. Con lui avevo sempre avuto un legame personale molto forte, soprattutto da dopo la festa contro il Concordato al Palalido nel febbraio 1978.

Però nei fine settimana uscivo sempre con la compagnia del mio compagno di scuola, e qualche volta ci raccontavamo a vicenda qualche episodio accaduto in passato, quando militavamo su fronti politici opposti. Un pomeriggio accadde un’altra volta un episodio simile a quello che era successo a me e al mio compagno di classe in Piazza Vetra. Questa volta ci trovavamo nei giardinetti di Piazzale Susa. Arrivò un gruppo di compagni, impegnati credo in una ronda antifascista, che riconobbero alcuni dei miei amici. Prima che potesse avvenire qualcosa di brutto, io dissi ai compagni che io avevo frequentato un comitato antifascista, feci il nome di alcuni di quel comitato che loro conoscevano bene e li assicurai che ora i ragazzi con cui ero lì non facevano più parte di nessun gruppo di estrema destra. Tutto si risolse e ci lasciarono in pace. 

Un giorno di una settimana, il mio compagno di classe mi disse che lui e altri nostri amici avevano deciso che dovevo conoscere una loro amica con cui tutti avevano fatto l’amore (forse il termine fu “sesso”) la prima volta. Mi disse che proprio in quei giorni c’era stato un altro dei nostri amici, che era anche lui vergine come me. Così, il sabato sera successivo, andammo a casa di questa loro amica, i cui genitori erano fuori per il fine settimana, e iniziammo a festeggiare. Io e il mio compagno di classe, mentre eravamo entrambi su di giri, ci sdraiammo sul letto matrimoniale con questa ragazza, che aveva anche lei la nostra età e che io avevo già identificato come una ragazza tranquilla e verso la quale io non nutrivo un giudizio negativo per il fatto che avesse scelto di avere rapporti promiscui con più ragazzi, anche contemporaneamente. Anche gli altri nostri amici erano nella stessa stanza seduti su alcune poltrone. C’era un giradischi e io proposi di ascoltare l’album Ummagumma dei Pink Floyd con le luci spente. Ero curioso di vedere quale reazione avrebbero avuto gli altri, ma soprattutto la ragazza sotto le lenzuola con me e il mio amico più intimo in quel periodo, ascoltando il punto del brano Careful with that axe, Eugene in cui avviene l’assalto con l’ascia e la vittima urla. E forse desideravo anche che, grazie alle luci spente, si raggiungesse la situazione giusta perché la ragazza iniziasse a fare qualcosa con me. 

Come infatti accadde. Mentre andava la musica sentii che con il suo piede sinistro iniziò a carezzare il mio destro. Anch’io risposi facendo lo stesso movimento nei suoi confronti. Poi iniziammo a praticare del petting, durante il quale una volta urtai con la mia mano quella del mio amico, e lui si scusò e mi lasciò campo libero. Quindi con molta fatica, dato che non ero lucidissimo, riuscimmo ad avere un rapporto completo. Già dal giorno successivo o un paio dopo la ragazza mi telefonò a casa per dirmi che si era trovata molto bene con me, che ero stato molto dolce, e che le sarebbe piaciuto rivedermi. Io accampai qualche scusa per non fissare un appuntamento. Anch’io le volevo bene e le ero anche grato per avermi fatto vivere quella prima esperienza, ma non mi sentivo attratta da lei. La rividi solo un pomeriggio insieme agli altri nostri amici, ma non accennammo più a quanto era avvenuto.

Intanto si avvicinavano gli esami di maturità. Gli scritti erano previsti per i primi giorni di luglio 1979. Qualche settimana prima, il mio compagno di classe e amico mi invitò ad andare nella casa in montagna della sua famiglia a studiare insieme. Nei primi giorni ci fu anche la sua ragazza, poi restammo da soli. Avevamo anche portato su due chitarre, e così continuai a insegnargli qualche nuovo accordo e ogni tanto potemmo suonare insieme. Io improvvisavo e lui mi accompagnava. Devo dire che allora - come si era dimostrato quando suonavo sulle gradinate della chiesa con il mio amico chitarrista blues - non avevo imparato a suonare scale e riff. E così le mie improvvisazioni erano molto limitate. Ricordo che mangiavamo quasi sempre pasta aglio e olio e peperoncino o pasta alla carbonara come primi e cotolette come secondo. Studiavamo molte ore, ma soprattutto di notte fino a poco prima dell’alba. Lui si impegnava soprattutto con matematica, io invece con italiano. Mi rilessi, forse tutti i tre volumi del Compendio di storia della letteratura italiana di Natalino Sapegno, che ancora conservo gelosamente. 

Al nostro rientro affrontammo gli esami di quarta e quinta da privatisti presso il Liceo Scientifico L. Bottoni di Milano. Trovai quel periodo come un tunnel che non finiva mai. Per lo scritto di italiano scelsi una traccia di attualità incentrata sul problema della crisi energetica di quell’anno (nota come seconda crisi petrolifera). Esordii affermando che il problema mi preoccupava relativamente ,perché auspicavo un modello di società diversa, in cui non ci sarebbe stato molto bisogno di carburanti fossili. Una società non capitalista e molto ambientalista. Scrissi così tanto che non feci in tempo a copiare in bella tutto il testo e invitai la commissione a finire la lettura dalla brutta. Il giorno dopo ci fu lo scritto di matematica. La mia preparazione migliore si fermava al programma di terza liceo. Avevo sì studiato qualcosa, ma non ero preparato a fondo sugli argomenti relativi alle funzioni trascendenti (esponenziali, logaritmi, trigonometria) e all’analisi (derivate e integrali). Per riuscire a finire un po’ più di metà del compito riuscii a farmi aiutare un pochino dal mio amico nei bagni, così come io gli avevo dato dei suggerimenti il giorno prima durante lo scritto di italiano. Gli orali andarono più facilmente, anche se due materie che erano state estratte per me per l’orale - storia dell’arte e geografia astronomica - non mi ero preparato bene. Lo dissi sinceramente subito prima delle interrogazioni. Trovai per fortuna due commissari comprensivi. Il professore di storia dell’arte mi chiese di parlargli di un argomento che mi piaceva e io scelsi l’Impressionismo, sul quale avevo un po’ di conoscenze, acquisite più che altro per interesse personale. Il docente di geografia astronomica, invece, mi chiese la forza gravitazionale. Per fortuna ebbi l’intuizione che avesse qualche analogia con la legge di Coulomb, che avevo studiato bene nel programma di fisica, e riuscii così a dirgli la formula giusta. Finiti tutti gli orali ebbi la bella sorpresa di essere stato promosso, anche se con un voto basso (38/60), ma non il più basso (36/60) con cui si diplomò qualche altro nostro amico. Il mio amico con cui mi ero preparato e l’altro nostro compagno di classe con cui eravamo usciti quell’anno scolastico furono promossi anche loro con due votazioni leggermente superiori alla mia. Noi tre fummo gli unici promossi di tutta la classe, il che mi dispiacque per gli altri che si erano dati da fare ma non erano riusciti a diplomarsi.

Dopo gli esami ripresi a frequentare sia il mio compagno di classe e i suoi amici, sia il gruppetto dell’ex-Cpv. Con quest’ultimo, l’11 luglio 1979, andai a sentire un concerto di B.B. King al velodromo Vigorelli di Milano. Uno dei nostri amici, quello con cui avevo sempre legato di meno, anche se ci conoscevamo dall’infanzia e abitavamo nello stesso condominio, rimase così entusiasta che ci trascinò tutti alla ricerca dei camerini dopo potevamo trovare B.B. King e la sua band. Li trovammo e riuscimmo ad entrare, senza essere fermati da nessuno, in una saletta dove erano tutti riuniti. B.B. King fu molto gentile e forse anche divertito. Ci facemmo scattare da qualcuno delle foto insieme al bluesman e agli altri musicisti. Mi sono sempre chiesto se da qualche parte del mondo esistono ancora quelle foto o almeno i loro negativi.

Qualche giorno dopo, il mio amico del quartetto di amici del 1976, un altro di quelli che si erano aggiunti a noi più tardi,  e con cui avevamo fondato il Cpv, ed io ci recammo in una casa sul lago di Como del primo. Poche ore dopo che ci eravamo sistemati io ho iniziato ad avere un disturbo neurologico. Non ricordavo più dove eravamo, chi c’era effettivamente (un mio amico si accorse che dicevo che c’era mio padre in un’altra stanza) e poi chi fossi io e chi erano loro. Ero cosciente solo che erano bravi con me. Uno o due giorni dopo mi tornò la memoria e rientrammo a Milano. 

Poi, come tutti gli anni, raggiunsi la mia famiglia al Camping Grigna di Ballabio. Lì mi rilassai e mi ripresi bene. C’erano gli amici di tutti i sessi, tutte le età, tutte le provenienze e tutti i modi di vivere diversi di sempre. Per qualche giorno portai su un amico del gruppo del mio compagno di classe, che aveva avuto dei diverbi in famiglia ed era voluto andarsene via di casa. Di giorno stava con me e la mia compagnia, mangiava con noi, e di notte dormiva nella nostra macchina. Poi tornò a Milano dalla famiglia. Io mi rimisi - sempre per modo di dire, ossia quasi esclusivamente platonico - con la ragazza di cui ero sempre stato un po’ innamorato. Un’altra, più grande, invece, una sera mi propose di andare a dormire nella sua roulotte con lei ma io declinai l’invito perché ero troppo perso per quella con cui, però, non combinavo molto. 

Forse, essendomi già tolto la soddisfazione di aver avuto un rapporto sessuale completo prima dell’estate - anche se l’esperienza era stata molto pregiudicata dal mio stato mentale del momento - non mi interessava fare di nuovo sesso. Sospinto anche dalla malinconia per l’avvicinarsi dei rientri dalle vacanze (e la mia ragazzina non mi aveva assicurato che ci saremmo rivisti prima dell’estate successiva) quei giorni scrissi anche una poesia, un sonetto, triste, in cui associavo l’arrivo dell’autunno e del maltempo con la fine della giovinezza e l’incombere dell'età adulta. Questa era simboleggiata, più che dalla fine del liceo e l’inizio dell’università, dal fatto che il 10 gennaio 1980 avrei compiuto 20 anni. Le poche persone a cui fece leggere la poesia - che peraltro non era l’unica scritta su un certo quadernetto in quegli anni - la trovarono abbastanza ben scritta ma ingenua.

Al rientro a Milano, la vita riprese esattamente come l’avevo lasciata prima, con le stesse abitudini e le stesse frequentazioni. Aumentarono quelle con gli amici del quartiere che si erano uniti al quartetto iniziale con la nascita del Cpv. Con alcuni di loro, il 9 settembre, andammo in auto a Bologna a sentire un concerto di Patti Smith. Riuscimmo a trovare un posto nel prato dello stadio molto vicino al palco. Il concerto mi piacque, e mi restai estasiato soprattutto durante una canzone in cui Patti Smith eseguì, a pochi metri da dove mi trovavo, dei lunghi assoli con il sax soprano. Quello strumento mi piaceva molto. E per la cronaca non era la prima volta che lo sentivo suonare dal vivo, poiché nel 1978, poco tempo dopo che avevo conseguito la patente di guida, insieme a mio fratello e al mio caro amico con cui abbiamo passato molto tempo insieme da soli fra la fine del 1976 e gli inizi del 1977, eravamo andati una sera a Cremona ad ascoltare un concerto del jazzista Steve Lacy. Ma, mentre quest’ultimo avevo fatto molta fatica ad ascoltarlo, perché si trattava di free jazz, gli assoli di sax soprano di Patti Smith mi penetrarono nella testa e nel cuore con piacere, e non mi sarei mai stancato di ascoltarli.

Durante il resto del mese, il gruppo di amici ex Cpv cominciò a sciogliersi. Mio fratello era già tornato a frequentare dei nostri amici di infanzia. Io continuai a verdermi con gli altri e un giorno chiesi, all’amico con cui avevo sempre legato di meno, come mai prima dell’estate mi avevano cercato, dopo un periodo in cui mi avevano emarginato. Lui mi rispose che si erano accorti che io stavo incamminandomi su una strada pericolosa con altri miei amici e che temevano che avrei compiuto qualche passo eccessivo che poi avrebbero potuto iniziare a compiere anche loro. Insomma, in qualche modo avevano cercato di stringere nuovamente i nostri legami per cercare tutti insieme di salvarci da un destino fatale. Io presi atto di questa confessione, che però non ritenni una conferma di un disamore nei miei confronti. Mi resi conto che anch’io avevo posto delle cause per il comportamento scostante che loro avevano avuto verso di me. A partire da quello di ritenermi un po’ più colto e intelligente. 

Purtroppo, però, verso quella strada pericolosa io avevo continuato ad andare ugualmente e anche loro avevano iniziato a incamminarsi. Dopo quel dialogo, io continuai ancora per un po’ di tempo a frequentare il mio ex compagno di scuola e altri ragazzi del quartiere. Intanto mi ero iscritto alla facoltà di Fisica dell’Università Statale di Milano, con l’obiettivo di diventare un astrofisico e scoprire i misteri dell’universo. Sia il mio ex compagno di scuola con cui avevo passato buona parte dell’anno, sia il mio migliore amico dall’infanzia (che andavo a trovare di tanto in tanto a casa sua la sera tardi), si iscrissero invece a Ingegneria Elettronica al Politecnico di Milano. 

Una sera, mentre mi trovavo seduto a un tavolino del bar Frison in attesa di qualche amico con cui passare la serata, arrivò da solo uno dei miei amici più grandi con i quali avevo iniziato a praticare il buddismo di Nichiren Daishonin fra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Mi chiese se volevo andare con lui alla birreria La Clinica di via Torricelli, sui Navigli. Accettai l’invito. Quando fummo là, si fece raccontare da me come stavo vivendo in quel periodo. Chiunque mi avesse guardato bene capiva che non scoppiavo di salute, né fisicamente né psicologicamente. Mi disse che se volevo risolvere una volta per tutte la situazione l’unica alternativa era ricominciare a praticare. Accettai anche questa proposta e dal giorno dopo inizia a frequentare lui e gli altri buddisti della zona tutti i giorni. Questo mio amico mi disse anche che, se mi sentivo in pericolo se fossi uscito di casa durante il giorno, era meglio se restavo a casa e poi uscissi con loro nel tardo pomeriggio e la sera. Così smisi per qualche tempo di vedere gli amici di prima. 

Una sera, il nostro amico chitarrista blues mi portò a casa della persona che gli aveva parlato per la prima volta del buddismo e a me sembrò che fosse quasi un buddha in persona, tanto era felice e convinto delle cose che diceva. Sempre a casa di quel ragazzo, che allora aveva 28 anni come il mio amico chitarrista, una di quelle sere incontrai un giapponese di trentasei anni, che praticava circa sedici anni. Abitava da qualche anno in Italia e risiedeva a Bergamo. Spesso, prima di tornare dalla sua famiglia, si fermava a Milano per incontrare dei giovani praticanti. Il giapponese mi lasciò parlare a lungo, mi fece alcune domande, si prese anche qualche appunto, e alla fine, con una voce calma e in grado di toccare il cuore mi disse: “Devi avere più rispetto di te”. Quelle parole mi fecero capire quale era stato il mio problema più grande di quegli ultimi anni. Qualche settimana più tardi, portai sempre in quella casa il mio ex compagno di classe, con cui ogni tanto avevamo iniziato a incontrarci all’università fra una lezione e un’altra: Fisica non era distante dal Politecnico. Anche in quell’occasione c’era il responsabile giapponese. Per almeno una mezz’ora recitammo Daimoku (la frase che riteniamo rappresentare la Legge mistica universale). Anche il mio amico lo fece con noi. Poi il giapponese parlò un po’ anche con lui. Lui però non decise di iniziare a praticare e dopo di allora ci rivedemmo sempre meno frequentemente, anche se ho continuato a pensare a lui molto spesso. (fine)

(pubblicazione riservata - Riccardo Cervelli 2022)



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