Autobiografia giovanile - Cap. 37 - Orto, Spagna e Marocco

Riccardo Cervelli 18 anni 18yo
Io a 18 anni

 Dopo i fatti alla casa occupata che hanno visto come aggressore l’Mls nei confronti dei fricchettoni che occupavano il terzo piano e che hanno portato alla mia, e alla nostra reazione di vendetta, pian piano smettemmo di andare alla casa occupata stessa. I rapporti con gli altri dell’ormai ex-Cpv si allentarono. In occasione delle festività pasquali, insieme a mio fratello, due dei miei amici pre-Cpv e due ragazzi che si erano uniti a noi negli ultimi tempi, e che erano stati miei compagni di classe all’Einstein, feci un viaggio ad Assisi e a Firenze. Ad Assisi andammo nello stesso campeggio dove ero stato da dodici-tredicenne. La mattina dopo la prima notte, ci svegliammo che sul prato fuori dalle tende c’era della neve. I miei ricordi di quei giorni sono un po’ confusi. Forse vivevo in uno stato di lucidità un po’ appannata. 

Al ritorno, comunque, iniziai a frequentare altre persone del mio quartiere, meno dedite a uno stile di vita sopra le righe come il mio, ma con cui comunque c’erano comunque affinità. E loro dimostravano nei miei confronti un forte senso di amicizia. Fra questi c’era la ex ragazza di uno dei miei più cari amici dalla fine del 1976 fino a pochi mesi prima (quando l'avevo perso di vista) e altre due ragazze. Era insomma una compagnia più mista di quella precedente. Anche loro, ma più raramente, erano venuti alla casa occupata nel periodo Cpv. Ricordo, in particolare, che una di queste ragazze una volta decise di fare quello che noi stavamo rimandando da tempo per mettere in ordine due locali che si trovavano sopra i nostri due e che noi avevamo collegato con una scala autocostruita. Si trattava di portare in cortile una vecchia stufa. Appena seppe quale era il nostro obiettivo, lei, come se nulla fosse, prese da sola la stufa, uscì sul ballatoio del secondo piano e buttò la stufa nel prato dietro la casa occupata. Rimasi stupito della forza, oltre che della decisione, di questa ragazza, che qualche anno dopo diventò una delle prime vigilesse a Milano.

E la scuola? Mi stavo dimenticando di dire che da metà novembre fino a metà febbraio circa eravamo stati in autogestione. Poi avevo iniziato a non andarci più se non per qualche lezione che mi interessava - come filosofia, latino e inglese -, con professori che stimavo e per andare a trovare i miei compagni, la maggior parte dei quali stavano diventando per me come degli estranei. Nel giro di alcuni mesi ai miei genitori arrivarono tre lettere (che ancora ho) in cui si segnalavano le mie assenze, l’impossibilità di effettuare le valutazioni e si esprimeva preoccupazione per l’esito dell’anno scolastico. A un certo punto, io dissi a mia madre che era inutile che continuavo ad andare a scuola, che l’anno scolastico ormai era compromesso, e che preferivo dedicarmi all’orto che, nei due anni precedenti, avevo iniziato a coltivare in un prato dietro a casa mia. Mia madre accettò e un giorno mi feci accompagnare da lei al consorzio agrario di Lodi a vedere e acquistare qualche attrezzo e prodotto per l’orto. A marzo avevo superato l’esame per la patente di guida e così andammo con la macchina di famiglia in quella città. Approfittammo dell’occasione per fare un giro del centro storico. Questa gita mi è rimasta impressa come il ricordo di una bella cosa fatta da solo con mia madre.

La primavera proseguì come me che frequentavo questi nuovi amici del quartiere, qualcuno del Donatelli con cui mantenevo un legame o che conoscevo per la prima volta quelle poche volte che mi facevo vedere a scuola, e qualcuno dei ragazzi più grandi di me che avevo conosciuto fra il 1975 e il 1976 durante le prime volte che ero andato alla casa occupata di piazza Assunta, ma molti li conoscevo di vista dall’infanzia. Ormai il punto di ritrovo, però, non era più la casa occupata, bensì un bar di via Ripamonti: il bar Frison. Con un ragazzo del Donatelli che avevo conosciuto per la prima volta durante uno dei miei giri nel liceo, trascorremmo insieme un weekend. Era più giovane di me, forse di prima o seconda liceo, con i capelli lunghi biondi, un viso serafico, quasi infantile. Poi non ci rivedemmo più ma ci eravamo scambiati i numeri di telefono. Chi vedevo di più erano i nuovi amici del quartiere che consideravo più “regolari” di me e delle persone che stavo frequentando in quegli anni. Un pomeriggio fra maggio e giugno mi ritrovai a casa di una delle ragazze che non avevo mai visto negli anni passati, anche perché non abitava esattamente nel nostro quartiere. Con noi c’era la ex fidanzata del mio amico che avevo perso di vista. La padrona di casa tirò fuori una bottiglia di vino siciliano e ce lo scolammo. Restammo ubriachi e ci sedemmo sul divano. La ex del mio amico era particolarmente sbronza e io mi sentii attratto da lei, che però non mi dava corda. Nel frattempo mi accorsi che l’altra invece avrebbe voluto fare qualcosa con me, ma io ero troppo fissato sull’altra. A un certo punto, come da accordi precedenti, citofonò il mio migliore amico per farmi scendere e accompagnare lui, sua madre e suo fratello a ritirare una moto Kawasaki 650 che avevano acquistato. L’accordo prevedeva che poi avrei guidato io la moto fino a casa sua, perché lui non aveva ancora la patente e suo fratello doveva guidare la macchina con cui dovevamo andare al negozio di moto. Dissi al mio amico di salire un attimo e, da come racconta ancora lui, vide la scena di me e le due ragazze ubriachi. Allora rinunciò a portarmi con lui e, a suo rischio, guidò lui la moto fino a Vigentino.

Pian piano si avvicinavano le vacanze. Io non sapevo proprio con chi andare, visto che non avevo più rapporti con gli ex Cpv e non conoscevo ancora bene i nuovi amici. Intanto avevo avuto l’occasione di conoscere uno dei ragazzi più grandi di quelli che avevano frequentato la casa occupata ancora negli ultimi periodi in cui io andavo ancora all’oratorio. Un ragazzo di circa otto anni più grande di me e che, tra l’altro, abitava nella mia stessa via. La conoscenza con questo ragazzo, al bar Frison, mi fece molto piacere, perché parlavamo di libri e di viaggi. Lui mi consigliò di provare, almeno una volta, a fare un viaggio all’estero da solo, perché mi avrebbe permesso di fare delle esperienze che, stando con altre persone che conoscevo, forse non avrei potuto fare perché perché ci sarebbero stati comunque dei compromessi da fare. Inoltre, viaggiando da solo, potevo anche riflettere su me stesso. Decisi allora di dire ai miei che volevo andare in Spagna con un mio amico, ma in realtà pianificai di fare il viaggio da solo e di arrivare fino in Marocco.

Little beggars
Bambini che chiedono l'elemosina nella metropolitana di Barcellona nel 1978

Fu così che, con i soldi che mi feci comunque regalare per la fine della scuola (nonostante fossi stato bocciato con “non classificato” in tutte le materie, tranne filosofia) acquistai alla Transalpino un biglietto ferroviario Milano-Algeciras e ritorno. Un biglietto aperto, nel senso che potevo fare le soste che volevo, e quando volevo, lungo i due percorsi. Così, un giorno partii da Milano Centrale con uno zaino con dentro sacco a pelo, vestiti di cambio, macchina fotografica Kodak Instamatic e il libro che avevo scelto di leggere durante il viaggio: Sulla strada di Jack Kerouac. Avevo anche carta e buste, perché ero rimasto d’accordo con la mia amica a casa della quale ci eravamo ubriacati quella volta che feci il “pacco” a Mario, che le avrei scritto un po’ di lettere su cui era scritta una sorta di diario di viaggio.

La prima sosta la feci a Barcellona, che trovai una città molto bella. Mi sistemai in una pensioncina all’inizio della Rambla, la quale fu poi il fulcro di quella tappa, nel senso che non visitai molti posti, ma soprattutto quelli che c’erano intorno a quella arteria. Poi ripartii alla volta di Madrid. Il viaggio fu molto lungo e rimasi stupito di vedere, lungo il percorso, vasti territori aridi e quasi deserti su cui il tramonto era molto affascinante. Arrivato a destinazione, scelsi un’altra pensione. Il luogo più importante che visitai fu il museo Prado, dove rimasi un po’ di tempo ad ammirare alcuni famosi quadri, fra i quali la Maya Desnuda di Goya e alcuni dipinti di Bosch. Per mangiare acquistavo sempre delle tapas in qualche bar, che consumavo seduto al bancone. Mi piacevano in particolare le olive spagnole nere. Per accompagnare le tapas bevevo soprattutto vino e poi concludevo con del café solo, ossia nero e senza leche (latte). Non ricordo quante notti mi fermai. Feci amicizia, da finestra a finestra, con un bambino di circa quattro anni che si chiamava Pedro, da cui ci divideva un cortile interno. Una sera, invece, mentre ero sdraiato sul letto, sentii armeggiare alla maniglia. Era come se qualcuno cercasse di entrare. Mi alzai lentamente e aprii la porta di scatto. Feci in tempo a vedere alcuni bambini scappare di corsa lungo il corridoio. Evidentemente avevano visto che ero un ragazzo e volevano farmi solo uno scherzo. L’ultima sera rientrai nella pensione ubriaco. Mi sdraiai sul letto e iniziai a sentire la stanza girare. A un certo punto feci giusto in tempo a prendere un sacchetto di plastica e rimisi. Non sapendo dove buttare il sacchetto lo gettai in cortile. La mattina presto, per timore che scoprissero quello che avevo fatto, me ne andai senza farmi notare. Per fortuna avevo già saldato il conto.

Il piccolo Pedro

Presi un treno verso l'Andalusia e mi fermai a Cordova, che era lungo il tragitto. La cittadina mi piacque tantissimo. In particolare rimasi estasiato a vedere la Grande Moschea con tutti i suoi mosaici e le arcate. Lì comprai un piattino nero con delle decorazioni dorate da portare ai miei come ricordo. Mi piacquero però anche le stradine piene di case basse intonacate di bianco e, in alcune, entrai a vedere i patio. Non avevo mai visto cortili piccoli così, pieni di piante rampicanti e altri elementi molto belli da vedere.

Sul treno che portava da Cordova a Algeciras dormii. La mattina mi svegliai sentendo parlare in Italiano. Scoprii che nel mio scompartimento c’erano una coppia di giovani - che non ricordo se erano fidanzati o marito e moglie - e due ragazzi con i capelli lunghi e un aspetto da hippie. C’era anche un giovane spagnolo. Feci subito conoscenza con tutti. I due ragazzi venivano dalla bergamasca ed erano diretti in Marocco, e precisamente a Ketama, una cittadina dove avevano sentito che si trovava del “fumo” (hashish) molto buono. La coppia, invece, era pisana ed era diretta a Tangeri, dove abitava un loro amico marocchino, che avevano conosciuto all’università di Pisa. Lo spagnolo, invece, era diretto a Ceuta, una città spagnola sulla costa del Marocco, dove contava di comprare un chilogrammo di fumo da rivendere poi in Spagna. I due bergamaschi mi invitarono a proseguire il mio viaggio con loro. Ricordo che uno mi disse: “In due si sta bene, in tre meglio”. Io accettai, ma quando arrivammo in nave a Tangeri, la polizia di frontiera lì rimandò indietro dicendo “Morocco doesn’t want hippies”. Io non ricordo se feci per dire che tornavo indietro con loro per solidarietà, se loro mi dissero di scendere dalla nave almeno io, o se dissi che mi dispiaceva e sbarcai. Intanto i due pisani mi avevano detto che potevo stare con loro. Così facemmo insieme la strada a piedi fino alla pensione dove il loro amico gli aveva detto di andare. Qui loro presero una camera matrimoniale ed io una con diversi letti. Per me era insomma come andare in un ostello della gioventù, dove non sapevi chi ti poteva capitare come compagno di stanza. Mi ritrovai con due amici tedeschi e un norvegese che viaggiava anche lui da solo come me. Io ero il più giovane di tutti, avendo solo 18 anni.

Nel pomeriggio uscimmo tutti insieme - io, la coppia di Pisa, i tedeschi e il norvegese - e ci recammo in un bazar gestito da alcuni giovani amici dell’amico dei due ragazzi pisani. Salimmo sul tetto e ci mettemmo sotto una tenda di tappeti, dove c’erano anche dei ragazzi olandesi, e un vecchio marocchino che, mi venne detto, conosceva ventitré lingue. Non so se questo fosse vero, ma riusciva a parlare con tutti noi nelle nostre lingue. A un certo punto sentii una voce che emetteva un canto. Poi subito dopo un’altra da un’altra direzione e un’altra ancora. Mi si accapponò la pelle, non per lo spavento, ma per qualcosa di inaspettato e misterioso. Uno dei marocchini mi disse: “È il muezzin”, cioè un addetto della moschea che invita i musulmani a pregare.

Tangier Bazar Riccardo Cervelli
Foto di gruppo all'interno del bazar a Tangeri. Io sono quello al centro con gli occhiali

Da quella sera cominciai a frequentare sempre il bazaar. Avevo fatto amicizia con l’amico marocchino della coppia pisana e con altri suoi amici, compresi i proprietari del bazar. Durante il giorno stavo lì a bere il té alla menta con i turisti che entravano nel bazar, alla sera andavamo a mangiare in qualche ristorantino non costoso ma buono. Fu lì a Tangeri che mangiai per la prima volta il pesce spada alla griglia e l’insalata di barbabietole, che scoprii piacermi molto. A differenza dei pisani avevo deciso di adeguarmi alle usanze locali e di non bere alcolici. Bevevo invece molto succo d’arancia. Dopo pochi giorni inviai una cartolina da Tangeri ai miei, ben sapendo che li avrei sorpresi spedendola dal Marocco e non dalla Spagna. Mi dissi che gli avrei spiegato di aver deciso durante il viaggio di andare anche in quel paese. Feci anche uno scarabocchio per fingere che li salutava anche il mio amico con cui ero partito, che non esisteva. 

Fra tutti i ragazzi marocchini che frequentavo, avevo fatto amicizia particolarmente con Sherif, che aveva poco più della mia età o forse eravamo coetanei. Una sera mi invitò a casa sua a cena. Ricordo la casa abbastanza grande, nel centro storico e una sorella che ci portò da mangiare. Credo che la vidi senza velo perché era ancora molto giovane: fuori, invece, le donne e le ragazze portavano tutte il velo. Vidi solo un’altra volta una ragazzina senza velo in piedi sulla porta di casa sua. Mi colpì molto il fatto che avesse gli occhi azzurri. Per il resto ero proprio marocchina. 

Nella zona dove abitava quella ragazza si vedevano spesso gruppi di bambini che lavoravano fuori da alcune case, che dovevano essere dei laboratori. Il loro compito consisteva nell’arrotolare, partendo da lontano, dei fili intorno a dei rocchetti. Anche i bambini di Tangeri mi colpirono molto. C’era un gruppetto che abitava nei vicoli che dovevo percorrere, la sera, per tornare dal bazaar alla pensione. Appena mi vedevano, mi venivano incontro, mi parlavano in italiano e mi accompagnavano fino quasi all’albergo. Erano molto simpatici e non mi chiedevano né soldi né altro: solo farmi compagnia. Le strade, non erano pulitissime: ogni tanto, percorrendo quei vicoli, passavo per un piccolo slargo illuminato, dall’alto, da una lampadina. Lì sentivo decine di scarafaggi abbastanza grossi correre sul selciato e colpirmi le scarpe; ma non provavo ripugnanza. Altre volte, in pieno giorno, si vedevano dei topi camminare tranquillamente lungo i cordoli dei marciapiedi a caccia di qualche avanzo di cibo.

Rimasi a Tangeri almeno tre settimane. Durante la permanenza, insieme ai due ragazzi pisani, al loro amico e a qualcuno dei nostri amici stranieri, facemmo una gita in pullman fino a Tétouan. Ricordo che, durante il viaggio, a un certo punto il pullman si fermò e salirono delle persone con delle capre. A Tétouan visitammo un forte e girammo per le vie della città. Rimasi impressionato dalla quantità di piccoli negozi che vendevano oggetti d’oro. Mi dissero che non era un oro purissimo, ma dai banchetti arrivava un bagliore di luce del sole riflessa che sembrava di essere in un forziere. Una sera, invece, i ragazzi di Pisa e io fummo invitati a casa dell’amico universitario. La famiglia era molto benestante. Ci disse che avevano tre pescherecci. La casa era molto grande, con stanze dai soffitti alti e stuccati. Ci accomodammo in angolo rialzato della sala e lì mangiai per la prima volta del cous cous. Dentro c’era molto pesce buonissimo. 

Una stradina di Tétouan

Una caratteristica che avevano i ragazzi marocchini che frequentavo - non l’amico dei pisani - era quella di parlarmi spesso della loro religione. Lo facevano in particolare Sherif e Mustafà, un altro più o meno coetaneo, con cui però non passavo molto tempo. Ammirai molto la loro fede, che comunque non si abbinava a un atteggiamento fanatico o bigotto. Era semplicemente sentita e loro desideravano che prendessi in considerazione la possibilità di abbracciarla. Ogni tanto mi facevano conoscere qualche amico adulto, o anche anziano, che conoscevano in altri punti di Tangeri. Una volta mi portarono da uno che aveva un negozio (non ricordo più di che tipo, forse una macelleria) con le pareti tappezzate da foto di famosi culturisti italiani. Me ne mostrò alcune parlandomi di chi era ritratto. Non so se fu anche quella persona a farlo, ma spesso, quando i marocchini mi conoscevano per la prima volta, si divertivano a dirmi: “Italia?... Mafia! Brigate Rosse!” e ridevano di gusto. E così anch’io.

Verso la fine della vacanza, poiché ormai i soldi stavano finendo, i miei amici di Tangeri mi convinsero, senza troppa difficoltà, che un passo importante che potevo fare era quello di farmi circoncidere. Mi dissero che avevano deciso di fare una colletta e di portarmi da una persona che faceva questa operazione. Quando andammo da lei, ci disse che lui praticava la circoncisione sui bambini e che non si sentiva di farla su un ragazzo grande. Allora i miei amici mi portarono in un posto dove c’era, come dicevano loro, un ospedale italiano. Per la verità mi sembrava più una piccola clinica o, forse meglio, una specie di ambulatorio. Comunque c’era un medico italiano, con cui rimasi da solo. Lui mi disse che forse era meglio che ci pensassi. E mi disse che poi avrei dovuto fare il viaggio di ritorno con una medicazione. Insomma alla fine, mi convinse ad aspettare, eventualmente, a sottopormi a questa operazione a Milano. Cosa che poi non feci.

Ormai erano arrivati gli ultimi giorni. Mi erano rimasti giusto i soldi che pensavo che bastavano per arrivare fino a Milano. Mi sembra che i miei amici marocchini mi regalarono qualche soldo, ma non era tanto. Così ripartii, ma il viaggio si rivelò essere più lungo di quello che mi sembrava di ricordare. Già nella tratta fra Algeciras e Madrid mi ritrovai che non avevo niente da mangiare. A un certo punto il treno si fermò in mezzo alla campagna. Ci dissero che le rotaie erano bollenti e che, essendosi dilatate, non ci permettevano di avanzare. Cominciai ad avere fame e provai a mangiare dei rametti con dei semi sopra. Poi, quando ripartimmo, mi feci coraggio, e andai in un vagone dove avevo visto che c’erano degli scout e loro mi regalarono una pagnotta.

Arrivato a Madrid, dovevo passare la notte da qualche parte. Decisi per stare vicino alla stazione. Non c’era nessuno ma dopo un po’ mi si avvicinò un ragazzo grande, il quale mi disse che conosceva un posto dove si poteva andare e che era sicuro. Mi incamminai con lui ma dopo qualche minuto mi resi conto che probabilmente aveva intenzione di appartarsi con me e così, con una scusa, tornai indietro all’ingresso della stazione. Qui mi sdraiai sotto il portico principale. Già all’andata avevo visto dei poliziotti che facevano le ronde nelle stazioni e che avevano dei grossi manganelli. Avevo pensato che dovevano essere più brutali di quelli italiani. Ma in quel momento, mi ritrovai a sperare che passasse la polizia e che mi portasse in un commissariato dove mi avrebbero dato da mangiare.

Il giorno dopo chiesi a una signora se poteva darmi qualche moneta e lei me le diede, cosicché riuscii a mangiare qualcosa. A Barcellona si ripetè la stessa situazione di Madrid. Ma qui trovai un bar che aveva appena chiuso e che aveva messo fuori dei sacchi. In uno c’erano dei panini svuotati dal loro contenuto. In quel momento c’era lì anche un barbone e ci contendemmo i panini. Per fortuna ce n’era per tutti e due.

Quando arrivai a Milano, la prima cosa che feci fu andare da mio padre all’agenzia della banca in via Ripamonti. Non dissi niente della fame che avevo sofferto durante i tre o quattro giorni di viaggio dal Marocco a casa. Lui mi portò a mangiare in una tavola calda che si trovava lì vicino, e dove lui andava sempre a pranzare. Il resto della famiglia era in campeggio a Ballabio. Non riuscii neanche a finire il primo piatto, perché lo stomaco si era chiuso.

Il giorno dopo salii anch’io a Ballabio. Non ricordo se me l’aveva già detto mio padre, o se me lo disse mia madre in campeggio, fatto che ritengo più probabile. In pratica era successo che, pochi giorni dopo la mia partenza, un camion che trasportava carburante si era rovesciato appena fuori da un campeggio a Barcellona. Il liquido aveva preso fuoco ed erano morte delle persone. C’erano ancora dei dispersi. Mia madre, in quei giorni, era andata tutti i giorni al consolato spagnolo per sapere se erano state identificate tutte le vittime e sincerarsi che io non fossi fra loro. Questa era l’epoca in cui non c’erano i telefonini e i ragazzi, quando viaggiavano, non pensavano di dover telefonare tutti i giorni a casa. Poi, un giorno, arrivò la mia cartolina dal Marocco e, insieme alla sorpresa per dove ero andato a finire, mia madre provò sollievo per sapere che ero vivo. Mia madre mi disse anche che, pochi giorni dopo che ero partito, mi aveva cercato al telefono un mio amico per chiedermi se volevo andare in vacanza con lui. Era il ragazzo del Donatelli che avevo conosciuto pochi mesi prima e che voleva propormi di andare con lui ad Amsterdam. Mi fece piacere sapere che qualcuno avrebbe voluto passare le ferie con lui.

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)


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