A dicembre 1975 morì mia nonna paterna Iris. Fu la prima dei miei nonni a lasciarci. Era anche di loro l’unica figura che non ero mai riuscito a conoscere molto in profondità perché da tanti anni soffriva di una forma di demenza. Mia padre, mio nonno paterno e mio zio parlavano di arteriosclerosi. Avevo sentito dire che era stata ricoverata anche per un po’ di tempo all’ospedale psichiatrico Paolo Pini. Di lei, nata nel 1900 a Pisa, avevo saputo da mia madre che, quando era incinta di me e i medici le avevano detto, fin dal terzo mese, di rimanere a letto perché c’era un rischio di aborto, un giorno questa mia nonna era andata a trovarla e le aveva portato del té. Da quelle poche volte che io e mio fratello, da piccoli siamo andati, con nostro padre, a trovare i nonni paterni e mio zio Alfredo, mi ero costruito l’immagine di una nonna di poche parole, come immersa nei suoi pensieri, che ci preparava un té e ci offriva dei biscotti. Aveva otto anni più di mio nonno, classe 1908. Morì durante il trasporto in ospedale. Mio zio Alfredo e mio nonno ce lo vennero a dire poco dopo, di sera, direttamente a casa. Qualche giorno dopo andammo a casa loro e io presi delle scatole di psicofarmaci che utilizzava mia nonna per capire che cosa assumeva e poi me li tenni per qualche anno da parte. Negli anni seguenti, parlando con mio nonno Nevio, capii quanto l'aveva amata. La chiamava spesso "la mia principessa". Io ci rimasi male per la morte della nonna, ma non posso dire che fin da quando ero piccolo avevo stretto un legame così forte da soffrire tanto.
Come ho scritto nella scorsa puntata, i tre giorni dal 16 al 18 aprile 1975, con i loro tre ragazzi di sinistra morti a seguito di scontri con fascisti (Claudio Varalli) e polizia (Giannino Zibecchi e Rodolfo Boschi), mi portarono ad avvicinarmi sempre di più agli ambienti extraparlamentari di sinistra. Ciononostante, sia per la mia giovinezza, sia per la libertà ancora relativa lasciata dai miei genitori nell’uscire la sera, sia per la mia tendenza a seguire soprattutto la mia testa, non aderii a nessun gruppo specifico ma rimasi un cosiddetto "cane sciolto".
![]() |
| Io ad Ulm, in Germania, nell'estate 1975 |
Nelle prime settimane dell’anno scolastico 1975-1976 ripresi a frequentare le riunioni del Comitato Autonomo Einstein (Cae) che, a dispetto del nome, non aveva niente a che vedere con Autonomia Operaia. Contemporaneamente, però, continuavo a frequentare la comunità dell’oratorio. Tuttavia, sempre più spesso mi trovavo a discutere con alcuni degli altri ragazzi a proposito della mia posizione intermedia fra le istanze di Cl e quelle dei gruppi di sinistra. Un pomeriggio, durante uno spettacolo organizzato in parrocchia, alcuni ciellini salirono sul palco e iniziarono a cantare una canzone in cui venivano nominate delle persone. Ad ogni nome fatto la musica si interrompeva e veniva chiesto al pubblico che cosa potesse rappresentare di più una certa persona. Quando venne fatto il mio nome, dopo un attimo di sospensione, cantarono l’inizio della canzone Bandiera rossa. Devo dire che rimasi un attimo perplesso, ma poi non potei che condividere la scelta e non mi sembra di essermela nemmeno presa per questo scherzo.
Fra le mura dell’oratorio e con quasi tutti i ciellini continuavo a trovarmi a mio agio. Va detto, peraltro, che all’oratorio non si presentavano solo persone che si identificavano con la comunità di Cl: ce n’erano altri che avevano deciso di definirsi “dissidenti” e altri che, pur non avendo preso questa posizione, frequentavano l’oratorio ma non partecipavano alle riunioni o alle attività a sfondo religioso o connotate come animazioni specifiche della comunità, per esempio le attività rivolte ai ragazzi più giovani o ai bambini.
Con alcuni di questi frequentatori dell’oratorio, ma non membri attivi della Comunità, iniziai ad aumentare il numero di amicizie. Alcuni li conoscevo già di vista perché abitavano anche loro da molti anni nel quartiere ma, avendo qualche anno più di me, da piccolo non li avevo frequentati. Solo uno, che era di un anno più vecchio di me, circa tre anni prima avevo avuto un’interazione nel campetto a fianco del mio condominio. Lui era passato di lì e, avendo già compiuto i 14 anni, poteva già guidare una moto da 49 cc. Aveva una moto da cross, un Fantic Motor, che era il sogno di diversi miei amici della mia età, compreso il compagno delle medie che viveva in una cascina a Locate Triulzi. Un pomeriggio, quel ragazzo entrò con la moto nel campetto e iniziò a parlare con me. Visto che mi piaceva la sua moto, mi propose spontaneamente di provarla. Io ne fui felice e feci un breve giro dentro il campetto, senza neanche cambiare le marce. Rimasi per sempre molto grato a quel ragazzo, che conoscevo appena di vista, per l’esperienza che mi aveva fatto fare.
Quando lo rividi all’oratorio, facente parte del gruppo dei “dissidenti”, iniziai a familiarizzare molto perché sapeva suonare molto meglio di me la chitarra. Mi insegnò qualche pezzo di musica pop dei Beatles, dei Rolling Stones e dei Crosby Still Nash & Young. Prima di allora, il mio repertorio era costituito soprattutto da canzoni di Cl e qualche pezzo di Bob Dylan, che era il mio musicista preferito. A questo proposito, il ragazzo di otto anni più grande di me che per primo mi aveva insegnato i primi rudimenti della chitarra di accompagnamento all’oratorio, e che era diventato uno dei responsabili più importanti della comunità, spesso mi chiama Bob Dylan perché avevo i capelli come quelli del cantante e avevo anche qualche somiglianza nel viso.
Fra gli altri ragazzi non ciellini che venivano tutti i pomeriggi all’oratorio, ma stavano prevalentemente nel cortile, ve n’erano due di alcuni anni più grandi di me e con lo stesso nome di battesimo. Detto senza cattiveria, entrambi non erano molto colti, e soprattutto uno dei due non sembrava avere un quoziente di intelligenza particolarmente alto. L’altro, invece, era più sveglio ma aveva un problema nella voce, che la rendeva sguaiata. Entrambi erano molto alti. Quello che sembrava meno intelligente era stato soprannominato da alcuni ragazzi “testa di legno”. Voleva anche lui imparare a suonare la chitarra ed io mi offrivo sempre di insegnargli quello che conoscevo. Però lui aveva, oltre a una scarsa predisposizione per l’apprendimento anche un problema pratico: aveva le dita molto grosse e questo gli impediva di premere le corde giuste con le dita giuste. Comunque aveva un cuore molto grande. Mi voleva molto bene. Possedeva un ciclomotore con cui tutti i pomeriggi, quando io volevo rientrare a casa, mi accompagnava fino al mio portone. Dopo i primi passaggi, legò al portabagagli del motorino una cuscino, in modo che per me risultasse più comodo starci seduto sopra.
Sempre all'inizio dell'anno, non ricordo né il mese né come avvenne, io e la mia storica fidanzatina da due anni, salvo due interruzioni, ci lasciammo definitivamente. Tra le altre cose che non andavano, il rapporto non progrediva nelle modalità che ci si aspetta per le nostre età. Io non osavo nemmeno baciarla sulla bocca, figurarsi fare qualche avance in più. Forse ero io ad essere bloccato. Forse era lei che preferiva che tutto restasse così o era a sua volta bloccata. Quando la accompagnavo alla messa serale, e poi fin sotto il portone di casa, le tenevo un braccio intorno alle spalle, ma lei non contraccambiava e teneva le mani in tasca.Non avevamo nemmeno più molte cose da dirci, e così compivamo i soliti tragitti in silenzio. Nelle ultime settimane, ogni tanto, con una frequenza casuale, mi diceva di avere paura di me. Non ho mai capito cosa volesse dirmi.
A farmi fare qualche piccolo passetto in avanti nella disinibizione fu una ragazza con cui stetti per qualche mese. Aveva anche un lei un paio d’anni meno di me e frequentava la terza media. Credo che mi avesse notato quando suonavo la chitarra alla messa domenicale delle undici, quella a cui partecipava la maggior parte dei parrocchiani. Fino agli inizi del 1976 non mi era sembrato che frequentasse assiduamente l'oratorio, perché non l’avevo mai notata. La conobbi comunque lì, alla festa di Sabato Grasso.
Ci trovavamo nel salone, in mezzo a una gran folla di bambini e ragazzi. C'era molta musica e si organizzavano diversi balli e girotondi. Lei era mascherata. Mi ricordo che a un certo punto cominciammo a guardarci e poi a ballare insieme. Non ricordo più come ci mettemmo insieme, ma avvenne (come succede spesso a quell'età) nel giro di pochi giorni dal primo incontro. Per qualche tempo la mia ex fidanzatina, quando mi vedeva, faceva delle battute sul mio nuovo rapporto. Mi sembra che, in tono scherzoso, una volta o due mi disse che era gelosa e che “quella l’ammazzo”. Mi sembra anche che mi inviò messaggi simili anche attraverso le sue amiche.
Con la nuova fiamma si instaurò un rapporto diverso da quello precedente. L’intesa che si stabilì, più che intellettuale, era fisica, benché anche in questo caso non arrivammo nemmeno lontanamente ad avere a rapporti sessuali. Spesso, stando in piedi uno di fronte all’altra, i nostri corpi entravano in contatto anche in corrispondenza delle parti erogene. Ciò mi provocava una sensazione piacevole e nuova. Portavamo entrambi dei jeans. Poi ci baciavamo sulla bocca, anche se mai in modo profondo.
Non ho mai ben capito perché ma all’inizio della nostra storia lei mi disse che qualcuno avrebbe potuto dirmi che era una ragazza facile e mi invitò a non dargli retta. Tuttavia questo non avvenne. Inoltre non conobbi nessuna delle sue amicizia e non vidi mai la sua famiglia. Tutti i pomeriggi, dopo esserci trovati all’oratorio compivamo lunghe passeggiate per il quartiere abbracciati. Una volta incrociammo mia nonna Carla che andava a casa nostra o tornava. Qualche giorno dopo mi disse che io e quella ragazza sembravamo usciti da una cartolina. Questa era mia nonna. Romantica. Spesso le passeggiate finiva al parco giochi di via Chopin. Lì ci sedevamo su una panchina e parlavamo. Ogni tanto ci scambiavamo qualche bacio. Mi ricordo che provavo piacere a tenere il mio viso vicino alla sua fronte e sentire il calore e il profumo della sua pelle. Avevo capito che usava sempre un certo profumo. Ogni volta che sentivo quella fragranza da qualche parte, subito mi ricordavo di lei e provavo un momento di estasi. Un pomeriggio condussi questa ragazza nel sottotetto del palazzo dove si trovava l’appartamento dove vivevo con i miei. Aprii il lucernario e mi feci vedere a compiere passo sulle tegole. In realtà, altre volte avevo invece effettuato passeggiate lungo tutti i tetti dei caseggiati (avevo iniziato a salire sui tetti per montare qualche antenna CB a dei miei amici; una volta che passeggiai su quelli dei nostri palazzi un vicino mi vide a chiamo mia madre dicendole: “Suo figlio sta camminando sui tetti!”). Rientrato nel sottotetto, restammo per qualche minuto abbracciati con la metà superiore dei nostri corpi fuori dal lucernario. Neppure quella volta andammo oltre a questi piccoli atti.
A questa ragazza avevo anche cominciato a raccontare delle mie sempre più numerose esperienze politiche. Non mi sembra però né che capisse quello che facevo né che la interessasse. Il ricordo dei momenti in cui le raccontavo queste cose è associato a quello in cui iniziai a fumare regolarmente sigarette Muratti. Ricordo che lei si arrabbiava perché stavo prendendo il vizio del fumo. Dopo pochi mesi il rapporto si esaurì. Un giorno non si presentò all’appuntamento all’oratorio e il giorno dopo mi spiegò che aveva avuto dei problemi in casa, che non l'avevano lasciata uscire e che lei si era arrabbiata moltissimo con sua madre. Non so se quello che era successo avesse qualche relazione con me questa storia. Come ho già scritto avevo potuto farmi la benché minima idea della sua famiglia. Dopo qualche giorno non ci rivedemmo più.
Intanto a scuola ero ormai diventato molto attivo a livello politico. In quel periodo avevo visto crescere il mio ascendente sui ragazzi della mia età: anche sulle ragazze. Con qualcuna di queste mi incontravo spesso durante i cambi di ora, gli intervalli o alla fine delle lezioni. Con una, in particolare, ero arrivato a un certo livello di petting: baci sulla bocca, lunghi abbracci, e cose del genere. Ogni tanto, scherzando, mi proponeva di fare un bambino. Non so più come si chiamasse, ma mi ricordo che era di carnagione chiara, con capelli biondi lunghi e lisci, e con gli incisivi centrali rotti in mezzo. Per un certo periodo, un po' con la scusa di dover difendermi dai fascisti, un po' per pura e semplice stupidità, presi ad andare a scuola con una pistola finta che avevano dato a mio padre (che da anni ormai era direttore di agenzia della Banca Commerciale Italiana) e che lui aveva portato a casa. A volte, questa ragazza mi metteva le mani nel giubbotto e mi chiedeva se poteva toccare quel "gingillo". Credo che non le avessi detto che non era una pistola vera. Ad ogni modo, se fossi stato perquisito, avrei sicuramente passato dei guai.
La maggior parte degli ultimi vecchi leader studenteschi del liceo stavano preparandosi all'esame di maturità 1976-1977. Cionostante, in primavera compimmo un'esperienza di autogestione di quattro giorni. Durante quelle giornate mi presi anche una mezza infatuazione per una compagna di quinta, io che invece frequentavo ancora la prima. Ne ero attratto fisicamente, mi trasmetteva serenità il suo atteggiamento e il suo modo di fare, e condividevo le sue idee. Forse rappresentava un ideale di sorella maggiore che non ho mai avuto. L'ultimo pomeriggio, dopo che eravamo usciti dall’istituto, alcuni compagni di quinta mi consegnarono dei manifesti e altri materiali che erano serviti per l'attività politica. Considerai questo gesto come un simbolico passaggio di consegne.
Il 6 maggio 1976 andai con il mio migliore amico al Palalido di Milano a vedere un concerto del cantautore Francesco Guccini, molte delle cui canzoni mi erano già note da almeno un paio d’anni e che suonavo spesso anche con la chitarra. A un certo punto sentii muoversi la panca sotto di me. Chiesi al mio amico se per caso era stato lui a provocare quel movimento e mi rispose di no. Poi notammo che l’enorme lampadario posto al centro del soffitto del palazzetto ondeggiava. A provocare tutto era stata la prima scossa forte del tragico terremoto del Friuli, regione situata a qualche centinaio di chilometri di distanza. Nelle mattine seguenti, all’ingresso e all’uscita della scuola mi misi a raccogliere delle offerte da inviare alle famiglie colpite dal sisma. Ricordo il mio disappunto quando un compagno di quelli con i quali avevo vissuto l’autogestione, militante della Federazione Giovanile Socialista (Fgsi, mi disse che era sbagliato raccogliere soldi privatamente, perché il sostegno doveva fornirlo lo stato. Io giudicai dentro di me troppo dogmatica questa posizione, arrivai a raccogliere circa 50mila lire e qualche giorno dopo effettuai un versamento in posta su un conto corrente per le vittime del terremoto.
(puntata aggiornata il 09/05/2022)
(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)

Nessun commento:
Posta un commento