Ed eccoci al 1974, l’anno dei miei primi 14 anni. Allora avere 14 anni ti faceva sentire già un po’ più grande perché, per esempio, potevi guidare i ciclomotori o le moto con meno di 50 cc di cilindrata senza che - come avviene invece oggi - occorresse aver ottenuto una patente. Una patente era necessario ottenerla, con un'età minima di 16 anni, per guidare una moto fino a 125 cc. E qualcuno dei miei nuovi amici dell’oratorio - o meglio della Comunità di CL - aveva un mezzo di questo tipo. Ogni tanto qualcuno si offriva, o accettava, di darmi un passaggio su una moto da strada 125. In particolare lo faceva un ragazzo che viveva nella mia via e che conoscevo da quando ero piccolo. Però fino a quel momento non avevo mai preso confidenza con questa persona per via della differenza di età e, conseguentemente, anche delle amicizie in comune. Una volta sola ricordo che avevo interagito con lui. La sua famiglia aveva smarrito il gatto nel condominio e aveva messo un foglietto vicino al citofono della loro scala offrendo una mancia di 500 lire a chi ritrovava l’animale. Io lo avevo fatto e avevo chiamato giù al portone quel ragazzo per consegnarglielo. Lui era sceso, aveva preso il gatto, mi aveva ringraziato e se se stava andando. Allora gli ho ricordato delle 500 lire e lui mi ha detto qualcosa come: “Come sono diventati svegli questi bambini”.
In particolare ricordo che una sera di quei mesi fra 1973 e 1974 questo ragazzo mi ha dato un passaggio dal nostro condominio all’oratorio del quartiere Olmi di Milano, dove era in programma un concerto del cantautore Claudio Chieffo, autore di buona parte delle canzoni che si cantavano nelle comunità di CL. Quel viaggio in moto è stato in assoluto il primo di una certa distanza che ho compiuto a bordo di un 125.
Nei mesi successivi, la mia passione per le attività della comunità di CL crebbe molto, anche se si svolgeva soprattutto nel fine settimana. Nei giorni feriali, infatti, l’oratorio era aperto ma fino a una certa ora ci andavano solo i ragazzi che frequentavano le superiori e che si trovavano lì per studiare insieme. Una volta ci ero capitato, li avevo visti tutti intenti sui libri, e me ne ero andato via subito. Però credo che da una certa ora in poi ci potevamo andare tutti, e così mi ritrovavo lì con la mia nuova fiamma e le sue amiche.
A scuola ero piuttosto intraprendente. Con il compagno e amico con cui condividevamo la passione per la scienza e la musica siamo rimasti gli unici a frequentare, il pomeriggio, le ore di musica. Lui aveva iniziato a studiare clarinetto, però in classe con il professore suonavamo ancora solo il flauto dolce. Ricordo che abbiamo studiato Summertime. Finora ho sempre parlato di lui solo a proposito dell’amore comune per la musica. In effetti anche la scienza era quasi se non allo stesso livello. In uno dei tre anni passati insieme, la professoressa di Italiano Seletti propose che ciascun alunno scrivesse una breve storia in cui erano protagonisti lui e un compagno. Io e questo mio amico scrivemmo ognuno una storia in cui l’altro di noi due era co-protagonista. Entrambi la ambientammo in un’avventura spaziale. Credo che la sua fosse un po’ più lunga e piena di dettagli che denotavano una grande conoscenza scientifica. Quando la lesse, sentii per la prima volta nominare un “gascromatografo”. Io, invece, mi distinguevo per propormi volontario a eseguire degli esperimenti di scienze in classe. Ricordo che la professoressa Formenti, che in un due primi anni, durante un’interrogazione di matematica, mi aveva detto che ero “un cretino”, mi guardava molto compiaciuta mentre mostravo gli esperimenti e li spiegavo ai compagni. Per l’esattezza ne portai due, entrambi di biologia. Uno era consistito nel lasciare per qualche giorno dell’acqua sporca (non ricordo se raccolta in una pozzanghera o prodotta in casa) in una provetta. In classe quindi, con un contagocce misi una goccia su un vetrino e mostrai ai compagni un protozoo, che definii, non so se correttamente, un’ameba.Il secondo esperimento era la dissezione di una cozza (ovviamente morta). Spiegai ai compagni le varie parti anatomiche del mollusco.
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| Io a quattordici anni |
Ma non solo scienza e musica. Credo che fosse in terza che proposi di portare, un pomeriggio, la classe a fare visita ai bambini spastici ricoverati alla clinica Don Gnocchi di via Capecelatro. Ottenuto il permesso, un giorno mi recai alla clinica e presi tutti gli accordi necessari con dei responsabili della stessa. Qualche giorno più tardi ci presentammo in massa al Don Gnocchi e passammo molto tempi insieme ai bambini ricoverati. Ricordo che abbiamo fatto anche delle gare di velocità spingendo i bambini sulle carrozzelle.
Per cambiare passatempo, a Natale mi ero fatto regalare un baracchino CB Pony, un modello molto più modesto di quello che avevano l’amico che mi aveva introdotto a questo hobby e la maggior parte degli altri CB che avevo nel frattempo conosciuto. Il mio aveva solo sei canali di cui, solo uno dotato di quarzi (sia in trasmissione sia in ricezione) all’uscita dalla fabbrica. E così, tornato da scuola, dopo pranzo capitava che partecipassi a qualche conversazione con altri CB del Vigentino, o altri quartieri limitrofi. Questa conversazioni si chiamavano “ruote” e ci si entrava dicendo “break” non appena l’ultimo che aveva parlato aveva “passato” il microfono, o meglio “mike” a un altro. Il quale, sentito chi voleva entrare, invece di parlare lui, diceva “Avanti il break”. Tramite queste “ruote” stavo conoscendo altri giovani della zona, con i quali ci accordavamo per fare un “verticale”, ossia un incontro di persona in qualche luogo conosciuto da entrambi: ovviamente, siccome l’attività CB era ancora vietata, non si dicevano nomi, cognomi e indirizzi.
Ognuno aveva una sigla: la mia era Attila. All’inizio avevo pensato a un’altra cosa, più che altro per dotarmi subito di una sigla, ma poi avevo optato per Attila perché, un po’, mi avevano sempre incuriosito i barbari. Già, l'archeologia e la storia medioevale ricadevano anch’esse fra i miei interessi, complice anche il fatto che sulla nostra zona si conoscevano delle storie che risalivano al tempo del Medioevo, come la costruzione dell’abbazia di Chiaravalle, le bonifiche delle paludi effettuate dai monaci cistercensi, e così via. La sigla Attila, però, se la comunicazione con gli interlocutori più distanti era disturbata, veniva scambiata per Aquila. Allora dovevo spesso ripetere, “Attila, il re degli Unni”. In quel periodo, inoltre, avevo fatto molta amicizia in classe con un altro compagno con cui negli anni precedenti ci eravamo parlati poco. Viveva più vicino di me alla scuola media, più precisamente nelle vicinanze del Parco Ravizza. La sua era una famiglia abbastanza benestante, che aveva un negozio di articoli per la pesca e un’azienda produttrice di reti che si trovava in Sud America. Quando decisi, per trasmettere con la radio, di non utilizzare più una piccola antenna “caricata” (cioè più corta del solito, con una bobina di compensazione) auto che avevo installato sul balcone, ma di costruirmi un’antenna dipolo a mezza onda (quindi lungo circa 5,5 metri), questo mio compagno si offrì di regalarmi del filo da pesca e dei pesi di piombo necessari, rispettivamente, per sostenere il dipolo e per tenerlo dritto verso il basso. Infatti, questa antenna filare la attaccai a un bastone, assicurato al balcone, e la feci penzolare fino a circa il terzo piano: santi in miei vicini di sotto che non si lamentarono!
Per prendere il materiale, ricordo che io e il mio compagno andammo nel loro negozio e poi ci recammo a casa sua, dove conobbi anche il fratello, di qualche anno più grande. Questo fratello aveva un bellissimo impianto hi-fi e una ricca collezione di dischi di musica rock e pop. Subito mi fece apprezzare la resa dell’impianto e conoscere qualche complesso di cui ignoravo il nome o avevo appena appena sentito parlare. Devo dire che anche l’amico del mio condominio che mi aveva fatto conoscere la CB, una delle prime cose che mi fece vedere quando andai a casa sua, fu l’impianto hi-fi, collegato a due grosse casse autocostruite. In quel caso mi fece invece ascoltato un breve pezzo di musica sinfonica registrata su un nastro e riprodotta con un bellissimo registratore a bobine Revox. Qualche tempo dopo anche il mio compagno di classe acquistò un baracchino e io mi offrii di montargli l’antenna sul tetto del suo palazzo e collegarla con un cavo alla radio.
All’oratorio continuavo a fare progressi nello studio autodidatta e a orecchio della chitarra. Spesso, adesso, mi ritrovavo con la mia ragazzina e le sue amiche all’oratorio e, o stavamo lì fino alle solite sei e un quarto, per poi andare alla messa delle sei e mezzo a Fatima, oppure, andavano a fare qualche passeggiata nel quartiere, soprattutto dove c’era il verde; a volte ci inoltravamo anche nei campi. Una di loro teneva assiduamente un diario, dove scriveva anche di me e della mia amata. Qualche volta me lo prestava per leggerlo ed io glielo restituivo il giorno dopo. Con questa ragazza, da un certo momento in poi, avevamo preso l’abitudine di sentirci al telefono una volta che io ero tornato a casa dalla messa delle 18.30. Con lei parlavo della mia storia, delle difficoltà che incontravo, perché in effetti non vedevo molti progressi nel dare un senso ad essa - parlando con la mia fidanzatina - e sicuramente continuava ad essere fin troppo pudica. Io non avevo il coraggio di fare qualche passo in più, lei mi sembrava voler lasciare le cose come stavano. Attenzione: non pensavo certo a fare sesso, e forse nemmeno petting spinto. Le telefonate con la mia amica duravano circa una mezz’ora tutte le sere e mia madre più volte mi veniva a dire che dovevo smettere, anche perché all’epoca avevamo il duplex. C’erano cioè dei vicini che non potevano telefonare se telefonavo io e viceversa, pur avendo ovviamente numeri diversi.
Giunta la primavera le giornate si allungarono. A quell’età i pomeriggi sembrano non finire mai. Verso la fine della terza media, sempre più spesso mi davano l'autorizzazione a uscire di sera con il mio migliore amico. Una sera, insieme a un altro comune amico poco più grande di noi, su mia proposta, andammo sotto casa dell'amica mia e della mia fidanzatina che teneva il diario per farle uno scherzo citofonico. Mentre eravamo vicino al citofono, da un balcone qualcuno iniziò a urlarci contro minacciando o di scendere o di chiamare la polizia. Decidemmo di scappare scavalcando una cancellata. Purtroppo, dal lato opposto non c'era una strada o un altro condominio bensì il cortile della scuola media dove andava il mio migliore amico. Immediatamente ci raggiunsero due o tre pastori tedeschi che azzannarono i nostri jeans poco sopra le scarpe. Poco dopo arrivò il custode della scuola, che con qualche calcio sul sedere ci buttò fuori dal cortile passando dal cancello sulla via Wolf Ferrari. La mattina dopo, questa persona riconobbe il mio amico all'ingresso della scuola e lo mandò dalla preside. Credo che tutto si sia risolto con una ramanzina e forse una nota.
La storia con la ragazzina durò sicuramente fino all’esame di terza media. Ne sono sicuro perché ricordo che, dopo gli scritti, o all’orale o a un colloquio finale in cui era presente anche mia madre, la professoressa Seletti mi mostrò o le brutte del tema o il tema stesso su cui, nei margini dei fogli protocollo, avevo disegnato dei cuoricini con le iniziali dei nomi mio e della fidanzatina. La prof disse che in commissione si erano fatti una risata. Per un istante, invece, io temetti di averla fatta grossa.
Nelle settimane che seguirono la fine degli esami l’oratorio organizzò una vacanza di circa quattro giorni a Penia, in Val di Fassa, per i ragazzi delle scuole medie. L’iniziativa coinvolgeva quattro comunità: Vigentino, Olmi, Baranzate e Sant’Andrea. Io ci andai e convinsi anche il mio migliore amico da anni di venire. Il viaggio durò un’infinità. Ma il posto era incantevole. Io mi portai il baracchino CB e lo collegai a un dipolo montato nel giardino. Però non riuscii a collegare nessuno. Il baracchino restò lì in mezzo alla camerata per niente. Sempre durante la vacanza ebbi modo di riprendere a sperimentare i problemi interpersonali che possono scoppiare quando ci si ritrova a vivere insieme ad altre persone dalla mattina alla sera. Protagonista di questa vicenda fu il ragazzo più grande di otto anni, che faceva parte del gruppo dei responsabili, che mi aveva insegnato a suonare la chitarra e con cui all’oratorio mi trovavo molto bene, e viceversa. I responsabili dormivano insieme in una camerata riservata solo a loro. Noi ragazzi delle medie in un’altra o altre due o tre. Per inciso, le ragazzine e le loro responsabili dormivano in un’altra ala della costruzione. Ebbene non so per quale motivo - forse perché i responsabili, più grandi, facevano un festicciola in camerata e facevano molto rumore - sono andato nella loro camerata per esprimere una protesta. Quel ragazzo, che era uno degli ultimi che mi sarei aspettato che mi trattasse male, prima di disse “ Sei peggio di Nixon!” e poi mi disse una frase molto volgare. Ci rimasi malissimo. Per tutta la notte e la mattina seguente avevo un groppo in gola. Alla fine decisi di parlare con quel ragazzo e gli espressi la mia amarezza. Con mio molto sollievo lui si scusò, mi disse qualcosa del tipo “anche quelli più grandi come noi possono sbagliare” e che questa esperienza era servita anche a lui.
Le giornate iniziavano con le Lodi e finivano con la Compieta. Insomma, si pregava spesso. Ma non solo. Facemmo delle passeggiate sulle Dolomiti. In breve tempo feci amicizia con ragazzi e ragazze delle altre tre comunità e iniziò a piacermi molto una di Baranzate, soprannominata Liz. Io avevo orecchiato il nome di Liz Taylor, ma non avevo capito chi fosse. E così, risentendo da qualcuno Liz Taylor ho pensato che potesse essere lei. Ad ogni modo, Liz mi piaceva perché aveva in viso molto femminile, capelli chiari (o schiariti; allora non sapevo ancora che molte ragazzine castane si tingevano i capelli), occhi vispi e un nasino alla francese, senza gobbe e forse un po’ all’insù. Come me aveva iniziato a fumare delle sigarette e quindi, qualche volta, siamo stati fuori dalla struttura ricettiva insieme a qualcun altro a fumare. Non è che ognuno che fumava avesse il suo pacchetto. Forse c’erano dei pacchetti portati da qualcuno che poi diventavano comuni, o scroccavamo le sigarette dai più grandi. Fra la ragazzine con cui avevo legato di più, sempre di un’altra comunità, ricordo che ce n’era una che diceva di essersi innamorata di un sacerdote giovane e che sognava, o credeva che sarebbe potuto succedere, che alla fine si sarebbero messi insieme. Durante quei giorni successe anche un fatto strano. Qualcuno degli addetti della struttura ci disse qualcosa circa un soldato, credo austriaco, il cui fantasma ogni tanto girava di notte nei corridoi. Ci disse anche il nome. Una sera io e alcuni altri andammo in un piccolo cimitero lì vicino e cercammo la tomba del soldato. La trovammo. Vicino alla lapide c’era una croce di polistirolo piena di spilli arrugginiti infilzati. Ce ne andammo e poi non ne parlammo più.
Forse dopo questa vacanza le attività dell’oratorio si interruppero per le ferie estive. Nello stesso periodo, non ricordo con quali modalità, la relazione con la ragazzina con cui stavo da mesi si chiuse. Se non ufficialmente sicuramente di fatto.
Forse dopo questa vacanza le attività dell’oratorio si interruppero per le ferie estive. Nello stesso periodo, non ricordo con quali modalità, la relazione con la ragazzina con cui stavo da mesi si chiuse. Se non ufficialmente sicuramente di fatto.
Un’altra novità di quel periodo in attesa di partire per le vacanze estive con i miei, è che io il mio migliore amico e un altro nostro ex compagno di classe delle elementari in via Noto, venimmo accettati come operai pagati in nero in una tipografia della zona. Il compenso era di mille lire l’ora e veniva pagato settimanalmente. Il lavoro consisteva, principalmente nel prendere, da un addetto a una taglierina, delle pile di cartoline e farne dei pacchetti da cinquanta. Il compito era facile, perché ogni cinquanta fogli di cartoline appena stampati, gli addetti alla macchina tipografica mettevano un foglio con cartoline vecchie non stampate con metodo fotografico e probabilmente scartate in passato. Così le pile di cartoline singole che uscivano dalla taglierina avevano all’interno queste cartoline estranee ogni cinquanta da tenere. Noi dovevamo quindi fare delle pile con blocchi di cinquanta cartoline uno sopra l’altro ma disposti in maniera sfalsata. Una giovane dipendente, poco più grande di noi e anche abbastanza prosperosa, prendeva ogni blocco di cartoline e lo inseriva in una macchina fascettatrice. Quindi noi prendevamo i blocchi fascettati e li inserivamo in piccole ma lunghe scatole di cartone, che successivamente inserivamo in scatole di cartone più grandi, che avevamo imparato a montare e chiudere bene con lo scotch marrone.
Il lavoro non era difficile e ci divertivamo pure. Ci divertivamo a scherzare con l’addetto alla taglierina, che era un signore ormai anziano. Siccome, a volte, alcune cartoline utilizzate come separatori rappresentavano contenuti pornografici, le mostravamo all’operaio e lui ci diceva: “Tanto non mi tira più”. Lo diceva in dialetto, che io non so scrivere. Oppure stuzzicavamo la ragazza della fascettatrice, che, siccome profumava sempre di sapone, avevamo soprannominato fra noi “fior di sapone”. Nel capannone si sentiva sempre della musica e una volta ci mettemmo a ballare come due stupidi (l’altro nostro ex compagno lavorava in un altro reparto). Dopo qualche secondo sentimmo fermarsi il rumore della macchina da stampa e c’erano gli altri operai che ci guardavano. Altro divertimento era trasportare fino al magazzino i pallet con le scatole di cartone completate. Per farlo utilizzavamo dei transpallet, sollevatori manuali con ruote e che assomigliavano vagamente a dei grossi monopattini. Quando questi transpallet era stati scaricati, ci si poteva divertire a riportarli a posto correndoci sopra. Con le trentamila lire guadagnate alla fine della prima settimana ricordo che mi sono comperato un paio di jeans Levi’s originali in un negozio famoso fra giovani che si trovava in via Zebedia. Provai un senso di orgoglio per aver effettuato il mio primo acquisto importante utilizzando soldo guadagnati con il mio sudore della fronte. Credo che lavorai in quella tipografia per quasi un mese. Quell’esperienza fu la prima e unica della mia vita come operaio. Un piccolo elemento in comune con i tantissimi operai che poi ebbi fra i miei amici negli anni e nei decenni successivi. Senza contare mi nonno paterno ex linotipista. E quasi un segno premonitore dell’ambiente di lavoro in cui sarei finito circa otto anni dopo: l’editoria.
(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)

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