Autobiografia giovanile - Cap. 9 - Scuola e colonia

 La prima elementare, nell’anno scolastico 1966-1967, ho avuto la fortuna di frequentarla nel mio primo quartiere. La scuola si trovava in via Scrosati, una traversa di via D’Alviano, a Milano, e si poteva vedere dalla finestra della camera da letto mia e di mio fratello Cristiano (abitavamo al settimo piano di via D’Alviano 17).

In prima elementare sono arrivato senza essere prima andato alla scuola materna (oggi scuola dell’infanzia). Quindi, se si eccettuano i pochi giorni in cui nel 1965 io e mio fratello avevamo frequentato un centro estivo vicino alla casa dei nonni materna (situata in via Venini), non ero abituato a un contesto scolastico. Negli anni precedenti, come ho già avuto occasione di scrivere, non avevo avuto modo di trascorrere molto tempo con bambine. Forse per questo motivo mi è rimasto impresso il fatto che la classe fosse mista.

Alcuni ricordi di quell’anno li ho, anche se ero ancora molto piccolo. Innanzitutto la mia classe (che se se non sbaglio era la prima F) faceva lezioni il pomeriggio, perché al mattino l’aula era utilizzata da un’altra classe. Erano ancora gli anni del baby boom (iniziati all'epoca del “miracolo economico”) e, inoltre, Milano era ancora meta di una forte migrazione dal Meridione. Le scuole che c’erano già non bastavano. Per questo motivo, si ricorreva ai doppi turni, alla costruzione di aule prefabbricate o allo spostamento di bambini in scuole fuori bacino d’utenza che avevano qualche classe non al limite di capienza.

Dovevo essere un bambino non facile da gestire, non so se più a causa del mio carattere all’epoca estroverso o per il fatto che non ero andato alla scuola materna. Un giorno la maestra mi disse che mi metteva una nota, ed io mi ricordo benissimo che iniziai a piangere e a dire che, se me la scriveva, i miei genitori non mi avrebbero più mandato a scuola. La maestra non si scompose e, allora, andai vicino a una finestra, presi le corde di una veneziana e me le misi intorno alla gola minacciando di suicidarmi. Risultato: non solo ricevetti la nota ma furono pure chiamati i miei genitori.

Un altro ricordo della scuola ha a che fare con un tema che poi è sempre stato la mia passione: la musica. Ricordo che fummo portati in un’aula grande, forse di forma triangolare, dove c’era un pianoforte, e che lì ci fecero cantare.

Un altro ricordo della mia classe è quello di un bambino che di cognome faceva Fantini. Aveva una sorellina di, credo, un anno più piccola. Alcuni pomeriggio mia madre e la loro ci portavano in un prato che si trovava all’inizio di via D’Alviano, entrandoci da piazza Frattini, sulla destra. L’area si trovava dietro un palazzo della piazza dove, credo, al piano terreno c’era un supermercato. A quel prato si poteva accedere anche da una stradina che partiva da via Lorenteggio poche decine di metri prima di piazza Frattini. Un pomeriggio stavo giocando con il mio compagno di classe e sua sorella quando, da quella stradina, abbiamo visto arrivare mio padre che tornava dal lavoro. Io devo avere urlato “C’è papà”, o forse mia madre deve avere detto quella frase. Comunque la sorellina del mio compagno mi è messa anche lei a urlare, forse guardandomi e correndo con me nella direzione di mio padre, “C’è papà, c’è papà”, quasi che quello fosse il padre di tutti noi. Credo che quella bimba un po’ mi piacesse, perché, negli anni successivi, l’ho pensata come fosse stata quasi una prima fidanzata.

In quei mesi, i miei genitori avevano acquistato una nuova casa in un condominio in costruzione in fondo a via Ripamonti, nel quartiere Vigentino. Forse una volta siamo andati pure a vederla, perché mi ricordo la prima parte del percorso che abbiamo dovuto fare in autobus o sull’auto di qualcuno. Mi pare di ricordare che da via D’Alviano, passata piazza Frattini, prendemmo la strada che facevamo di solito a piedi per andare al santuario di Santa Rita alla Barona. E in effetti, anche oggi, quella sarebbe la strada più breve. 

Finito l’anno scolastico, io fui inviato in colonia a Cesenatico con il Comune di Milano. Ricordo mia madre che cuciva dei piccoli pezzi di stoffa con un numero di quattro cifre su tutti i pezzi di abbigliamento che mi dovevo portare al mare: mutandine, magliette, calzoncini, eccetera eccetera. Quel numero, che oggi ho scordato, mi rimase impresso per alcuni anni. 

Partimmo con un treno speciale dalla stazione di Porta Garibaldi. Non conoscevo nessuno degli altri bambini. Dopo un po’ di ore arrivammo alla stazione di Forlì, dove fummo caricati su dei pullman che ci portarono fino alla destinazione finale. La colonia era una bella costruzione che si affacciava sulla strada litoranea, attraversata la quale ci si trovava subito sulla spiaggia. L’edificio aveva un cortile davanti e un parco alberato dietro. La mia camerata si trovava in un’ala del piano terreno sulla destra ed era piena di lettini. La maestra, di nome Agnese, dormiva in un angolo della camerata protetto da alcune tende scorrevoli. In questo modo poteva avere la sua privacy, ma allo stesso tempo riusciva a sentirci. 

Al mare andavamo la mattina. Per attraversare la strada i nostri addetti, e forse anche qualche bambino a turno, insieme a loro, bloccavano il passaggio delle macchine da una parte e dall’altra, forse anche con delle palette. Quindi tutti i bambini attraversavano la strada. Giunti dall’altra parte potevamo entrare nell'acqua mare fino a un filo che delimitava una sorta di area quadrata. Ma si passava anche molto tempo a giocare sulla sabbia. 

Il nostro gruppo di maschietti con la maestra Agnese

Prima o al ritorno dal mare, sostavamo inquadrati nel cortile davanti all’ingresso, dove il direttore a volte ci sgridava e, mi sembra, facesse addirittura schioccare un frustino per aria per intimorirci. Credo nella verità di questo ricordo perché per anni mi ha fatto ridere il contrasto fra il nome della colonia, “Il sorriso dei bimbi”, e la severità del direttore.

Si pranzava e cenava in un refettorio. C’era un forte odore di cucina. A volte qualche bambino si alzava perché aveva il mal di pancia e rimetteva per terra. Subito gli inservienti arrivavamo con un secchio pieno di segatura, una scopa e pulivano. Dopo pranzo, dovevamo fare un sonnellino. Io e un altro bambino, che aveva il letto alla destra del mio, non avevamo mai sonno e quindi giocavamo sul pavimento. A volte si univano a noi altri due o tre bambini. Solo una o due volte la maestra Agnese venne a vedere che cosa stavamo combinando.

Una cosa che ricordo sempre con piacere era che, a un certo momento dopo il riposino, suonava la musica della canzone “Garibaldi fu ferito” a un altoparlante. Allora ci alzavano dai letti e correvamo fuori dalla porta. Mentre attraversavamo la porta, una persona dava a ognuno un frutto. Mi sembra che fossero solo o soprattutto pere. Quindi andavamo a giocare in giardino. Le femmine dovevano stare in un’altra ala della colonia, e quando uscivano il pomeriggio le mettevano a giocare in un altro punto lontano dal nostro. 

A volte, dopo il riposino e la merenda, invece di restare in colonia ci portavano in fila per due per le strade di quella parte di Cesenatico. Mentre camminavamo, tutti vestiti uguali e con il cappellino in testa, ci facevano cantare delle canzoni. Molte le ho imparate lì, come John Brown, che mi piaceva molto. 

Un altro rito era la doccia. Era una stanza con una passerella di legno a forma di ferro di cavallo, sopra la quale c’erano i soffioni dell’acqua fissati a dei tubi in una posizione fissa. Alcuni addetti della colonia si schieravano al lato della passerella, noi ci salivano nudi e percorrevamo la passerella in senso orario. Ogni addetto si occupava di una fase del nostro lavaggio: insaponamento, spugnatura, risciacquo, asciugatura e così via. 

Della colonia ho conservato solo un paio di ricordi spiacevoli, a parte le urlate del direttore. Una volta, durante una delle passeggiate, ho trovato per terra una banconota e se la sono presa gli addetti. Ma il peggiore è questo. Durante un pranzo, un bambino seduto non lontano da me ha buttato per terra dei pomodori. Un’inserviente se n'è accorta e ha chiamato una responsabile. Questa ha chiesto a noi chi fosse stato. Un altro bambino  non quello che aveva buttato per terra i pomodori - ha indicato me. Io non ho voluto dire chi era stato ma mi sono limitato a dire che non ero stato io, che a me i pomodori piacevano; ed era vero. La responsabile, allora, ha detto all’inserviente di non darmi il gelato che era previsto come dessert. E quella era l’unica volta che c’era il gelato nel menu. Credo che quell’esperienza abbia segnato in qualche modo la mia personalità negli anni successivi.

Fra i ricordi positivi, oltre quelli che ho già ricordato, vi sono le serate in cui, prima di andare a dormire, ci proiettavano dei film su uno schermo allestito nel parco. Credo che quelle siano state le prime volte in cui ho visto dei film. 

Anche il rientro a Milano avvenne nello stesso modo con cui eravamo partiti, ma prima con pullman fino a Forlì e poi in treno fino alla stazione di Porta Garibaldi. Appena sceso dal treno ho trovato la mia famiglia ad attendermi per portarmi a casa.

Un po' di giorni più tardi cominciammo a vivere nella nuova casa. Poi andammo a Legri a trascorrere il resto della vacanza insieme ai nonni.

(riproduzione riservata - Riccardo Cervelli 2022)

Nessun commento:

Posta un commento

Autobiografia da adulto - Cap. 11 - Idoneo alle armi

 La vacanza a Vieste, purtroppo, si concluse con un fatto spiacevole. Una sera decidemmo di recarci in un luogo situato sulle pendici di una...